Forugh Farrokhz?d: poesie (traduzione di Francesco Occhetto)

FOROUGHForugh Farrokhz?d, poetessa e regista, nata a Tehran nel 1935, trascorre l’infanzia nel più antico quartiere della città, in una casa dal giardino adorno di alberi d’acacia, dove inizia a comporre versi e a interessarsi d’arte a soli sedici anni. Questa l’età del precoce matrimonio con il cugino Parviz Shapour, molto più grande di lei, dal quale nasce il figlio Kamy?r, che deve presto abbandonare quando sceglie di seguire appieno la propria vocazione poetica, divorziando dal marito; per le leggi dominanti non è più ritenuta adatta al ruolo di madre e per il resto dell’esistenza le viene proibito di avvicinarglisi. Nel 1955 pubblica la sua prima silloge, “Prigioniera” (Asir), sotto l’impulso della “scuola nim?ista” (She‘r-e nou) di Nim? Yushij, capostipite della poesia nuova persiana, ispirata, nella temperie letteraria primonovecentesca, a un equilibrato criterio di distacco dagli stilemi metrici e formali vigenti sino alla dinastia Q?j?r (1790-1925), in linea con una più libera musicalità della versificazione così come con le esigenze contenutistiche del presente, al di là della codificata imagerie della lirica classica. Tale volume presenta in nuce i tratti che ne avrebbero favorito, da parte della stampa e delle frange politiche osservanti la Shari‘a, la fama di “poetessa del peccato”, penna simbolo della ribellione femminile, ancora sprovvista di una definita identità poetica ma già saldamente orientata alla difesa della parità intellettuale e politica della donna. Voce coraggiosa la sua, contro il muro dell’ipocrisia e della morale pubblica, pronta a schiudersi come farfalla, dal bozzolo soffocante di una cultura rigida e maschilista. Nel 1956, a seguito di una crisi depressiva indotta dall’allontanamento forzato dal figlio, lascia l’Iran e compie un viaggio in Italia, lungamente descritto nel diario personale. Poco dopo dà alle stampe “Il muro” (Div?r) e “Ribellione” (‘Esy?n), opere in versi dove affronta, con richiami ricorrenti ai temi della prigionia e della sovversione, il rimpianto per l’innocenza perduta, la lontananza dall’amatissimo figlio, le pene d’amore, la solitudine dell’anima, la questione femminile e la condanna del puritanesimo della società. Queste tre raccolte sono per l’autrice «gli ultimi affannosi respiri prima di arrivare a una specie di liberazione dall’individualismo e giungere alla fase dell’elaborazione mentale», sviluppo della piena maturità, acquisita nel 1964 con il capolavoro poetico “Un’altra nascita” (Tavallodi digar), che la consacra come firma di spicco della rivoluzione letteraria iraniana avversa alla censura del regime Pahlavi, tesa a un impianto di carattere filosofico e ideologico, esito della lotta politica e sociale verso la collettività di ogni genere e paese, tentativo di resistere, mentre «tutti i valori hanno perso il loro peso e stanno per crollare». Il dettato sorgivo e a tratti ingenuo della sua prima produzione si raffina pertanto in un minimalismo dai toni conversativi, tramite il superamento del predominio dei contenuti autobiografici, nell’ottica di uno sguardo universale sulle manifestazioni simboliche e mitologiche della coscienza. L’introspezione soggettiva prediletta agli esordi diviene qui metafora di una smarrita unità, di una nostalgia dell’Origine comune a tutti i popoli (Leitmotiv del Masnav? di Rumi), di un ancestrale impulso alla vita che oltrepassa la sorte individuale, «perché chiunque rimanga lungi dall’Origine sua,/ sempre ricerca il tempo in cui vi era unito» scrive il Mowl?n?, per mutarsi in quel fuoco che «chi non l’ha […] ben merita di dissolversi nel nulla!». Canzoniere di «fata piccola e triste», il volume segna l’approdo a un vocabolario di stampo colloquiale che, accostatosi ai valori dell’impegno civile, non perde tuttavia il retaggio mistico della lirica persiana, nella sua ancipite e gnostica simbologia, intrisa al contempo di ascetismo e miscredenza, di estatica ricerca del divino e infamia (bad-n?m?), affinché l’Acqua di Vita che giunge dalla conoscenza interiore renda chiara e trasparente la percezione delle cose, affrancando l’umano dalle sovrastrutture mentali che lo incatenano (si ricordino in primis H?fez e Khayy?m). La scrittura è in tal senso uno sposalizio cosmico tra il poeta e l’universo, è la finestra di un’anima desiderosa di ricongiungersi alla Sorgente Eterna, affacciata sullo spettacolo mortifero del regno materiale, nella continua osservazione della natura e dei misteri amorosi. Geometria euritmica di priorità semantica entro cui confluiscono realismo e astrazione, questa della Farrokhz?d, per la quale «la Poesia nasce dalla vita e dalla realtà, non bisogna sfuggire o rifiutare, bisogna andare avanti e sperimentare anche gli attimi più dolorosi e grotteschi». Vivere, testimoniare il mondo, ecco il compito di chi scrive, per disvelarne l’arcana e criptica essenza, nella «solitudine aliena», in compagnia di un messaggero celeste, di «qualcuno che nel cuore è con noi, con noi nel respiro, nella voce con noi». Medesimo ascolto va riservato infine agli altrui destini, spesso tragici, come accade quando realizza un documentario sui lebbrosi di Tabriz (1962), stimolato dall’incontro d’amore avvenuto nel frattempo con il regista Ebr?him Golest?n, al quale confessa: «Se potessi essere parte di questo immenso infinito, allora potrei stare dove voglio io… Vorrei finire così o continuare così… Dalla terra nasce sempre una forza che mi attira verso di sé, andare avanti o salire non mi importa, vorrei soltanto sprofondare insieme a tutte le cose che amo. E insieme a tutte le cose che amo integrarmi e mescolarmi in una totalità immutabile». Una sorta di premonizione, poiché la morte la coglie all’improvviso il 13 febbraio 1967, tra le stradine alberate del quartiere di Shemir?n, a Tehran, in un incidente d’auto. Verrà editata postuma, nel 1970, la raccolta “Crediamo all’inizio della stagione fredda…” (Im?n bi?varim be ?gh?z-e fasl-e sard…). «Ricordati del volo/ l’uccello è mortale», sembra sussurrare la sua scarna tomba, ai piedi delle montagne innevate degli Elburz, a chi va portandole un fiore. Quel volo custodito tra le pagine infuocate e magiche dei suoi libri, che per mezzo secolo gli studenti di tutto l’Iran e non solo hanno esibito come stendardo di libertà e di uguaglianza: quel volo che nessuno mai potrà più trattenere. Del resto «come si può/ a chi se ne va/ così paziente,/ così pesante,/ così perduto,/ ordinare di fermarsi?».

Forugh Farrokhz?d
poesie

traduzione dal persiano a cura di Francesco Occhetto

                                                                                                         

*

Dono

Io parlo dall’estremo della notte.
Io dall’estrema oscurità,
dall’estremo della notte parlo.

Ma se soltanto verrai qui, o amato,
portami un lume, e una piccola
finestra per spiare la strada
affaccendata e felice.

*

Solitudine di luna

La notte intera
gridarono i grilli:
«Luna, immensa luna…»
La notte intera
suadenti sospiri
scalarono il cielo
dalle braccia tese dei rami.
Brezza d’abbandono ai decreti
di misteriose, sconosciute divinità
mille segreti respiri
nella vita arcana della terra,
una lucciola
nella sua vagabonda aureola di luce,
l’inquietudine sul soffitto legnoso,
Leyla dietro il velo,
le rane nello stagno, tutti insieme
tutti insieme senza sosta
gridarono fino all’alba:
«Luna, immensa luna…»

La notte intera
luccicò la luna sul loggiato.
La luna,
il cuore solitario della notte,
era in oro d’angoscia
era in punto di pianto.

*

Un’altra nascita

Tutto il mio essere è un canto oscuro
che in un continuo ripetersi ti porterà
verso l’alba di eterne sorgenti e fioriture.
Ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho unito all’albero, all’acqua, al fuoco.

La vita è forse il lungo viale
che ogni giorno percorre
una donna con la sua cesta.
La vita è forse la corda sul ramo
dell’uomo che si impicca.
La vita è forse
il bambino che torna da scuola.

La vita è forse accendersi
una sigaretta, nella languida
pausa tra due amplessi, oppure
lo sguardo del passante
quando si toglie il cappello, sorride
banalmente e all’altro dice:
«buongiorno».

La vita è forse quell’attimo
sospeso, quando nelle tue pupille
si strugge il mio sguardo,
presentimento che legherò
alla percezione della luna,
alla conquista delle tenebre.

In una stanza
grande quanto la solitudine
il mio cuore grande come l’amore
scruta le sue pretese semplici di felicità,
la bellezza dell’appassire dei fiori nel vaso,
l’alberello che hai piantato
nel giardino della nostra casa,
il cinguettio dei canarini
che cantano nella cornice della finestra.

Oh…
questa è la mia parte,
questa è la mia parte.
La mia parte è un cielo
nascosto da una tenda appesa.

La mia parte è scendere
una rampa di gradini logori
per scovare ciarpami e nostalgie.
La mia parte è una passeggiata
melanconica nel giardino dei ricordi,
è morire nella tristezza di una voce
che mi dice:
«Amo
le tue mani».

Pianterò le mie mani in giardino,
lo so, lo so, lo so, crescerò
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita
sporche d’inchiostro.

Indosserò due rosse ciliegie gemelle
per orecchini, e alle mie unghie
incollerò petali di dalia.
C’è una stradina
dove i ragazzi che mi amavano
con i loro capelli spettinati
i colli sottili e le gambe magre
pensano ancora al sorriso innocente
di una ragazza, che una notte
il vento portò via.

C’è una stradina che il mio cuore
ha rubato ai quartieri dell’infanzia.
Viaggio di una sagoma sulla linea del tempo,
una sagoma che feconda la linea sterile
del tempo, la sagoma cosciente
di un’immagine che torna
da una festa nello specchio.

È così che qualcuno muore
e qualcuno resta.
Nessun pescatore
raccoglierà mai una perla
dall’esile ruscello che sfocia nel fosso.

Conosco una fata piccola e triste
che vive nell’oceano e dolcemente
in un magico flauto suona il suo cuore.
Una fata piccola e triste
che di notte muore con un bacio
e all’alba con un altro bacio
rinascerà.

*

Sulla terra

Io non ho mai desiderato
essere una stella del firmamento
celeste, o come spirito eletto
silente sorella degli angeli.
Mai distaccata dalla terra,
mai amica del cielo.

Qui, sulla terra,
sono uno stelo di pianta
che vive nutrita dal vento,
dal sole e dall’acqua.

Carica di desiderio e dolore
rimango qui, sulla terra,
accolgo l’elogio delle stelle
e la carezza dei venti.

Guardo dalla mia piccola finestra:
non fatta d’eterno, nient’altro
che l’eco di un canto sono.

E solamente l’eco di un canto
cerco nel gemito d’amore
più puro ancora
del silenzio del dolore.
Un nido non cerco
nella stilla di rugiada
posata sul giglio del mio corpo.

Sulle pareti della mia casa,
della mia vita, i passanti
lasciano tracce di ricordi,
con nere penne d’amore:
un cuore trafitto da una freccia,
una candela consumata,
pallidi segni taciturni
su confuse e folli missive.
Per ogni bocca che mi ha baciata
è nata una stella, nella notte
che scendeva sul fiume dei ricordi.
Perché mai desiderare le stelle?

Questo è il mio canto,
più deliziata, più felice
non fui mai come ora
prima d’ora, mai come ora…

* la traduzione dei testi è tratta da: F. FARROKHZ?D, Tavallodi digar (“Un’altra nascita”), Amir Kabir, Tehran, 1369/1964


Francesco Occhetto (1996) è studente di Scienze orientalistiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, dopo essersi laureato in Lettere all’Uniupo. Si occupa di poesia, traduzione e storia delle religioni; in tale contesto ha approfondito lo studio della civiltà religiosa e letteraria dell’Iran.