Gli ottant’anni di Davide Argnani – Intervista a cura di Valerio Ragazzini
Gli ottant’anni di Davide Argnani
Intervista a cura di Valerio Ragazzini
Forse arrivo tardi: quando Davide Argnani mi ha scritto per la prima volta si è aperta davanti a me un’intera stagione letteraria ormai lontana, eppure non ancora remota. Arrivo tardi a quella stazione, senza più alcun treno e senza nessun passeggero. Io posso soltanto intuire, inebriarmi dell’odore delle locomotive in frenata. Argnani ha per me quell’odore, l’aria quieta di un silenzioso tramonto dopo un’immane tempesta. La prima volta che ci parlammo mi raccontò di aver conosciuto personaggi come Aldo Spallicci e Tonino Guerra, e capii subito che ero già in torto: ero io che dovevo cercare lui, e non il contrario. Argnani è il testimone vivente di una stagione che forse non tornerà, ma che ha animato la mia terra, la Romagna. Molti dei suoi protagonisti non ci sono più, ed è proprio allora che ci ritroviamo soltanto con una manciata di libri, è allora che ci sembra d’aver sprecato un’occasione. Abbiamo temporeggiato, ma se solo avessimo rotto ogni indugio, ogni remora, ogni timidezza, forse avremmo bevuto da fonti così limpide da superare ogni immaginazione. Questo mi sembra Argnani: un poeta che compie ottant’anni, che porta in cuor suo il dolore di tutte le guerre in tempi che sembrano di pace; un poeta che veste gli abiti di una stagione che finisce, ma i cui occhi hanno il colore d’un azzurro brillante, due occhi che sembrano sempre sul punto di commuoversi. Argnani non si tira mai indietro, con l’umiltà e la disponibilità di quei monaci eremiti che paiono antichi, ma i cui gesti rivelano un’eterna giovinezza.
Nella breve biografia inserita nel tuo ultimo libro di poesie Musa fitta nell’azzurro (Di Felice, 2014) leggo di come a quindici anni la scoperta della poesia comincia per te con il rogo di una pila di fumetti. Com’è avvenuta per te, che ti definisci autodidatta, la scoperta della letteratura?
“Allora in famiglia avevamo abbastanza miseria, lavorava solo mia madre che doveva mantenere due figli, mio padre era morto dopo due anni di lager a Bonn sul Reno. Andavo in biblioteca e grazie a un professore di francese scoprii i poeti maledetti Jehan Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire e poi i nostri Giovanni Pascoli, D’Annunzio ma soprattutto Dino Campana e fu così che a sedici anni mi dilettai a scrivere versi preso dai ricordi di vita, ma senza pretese. E fu dopo i vent’anni che maturò in me il vero senso della poesia…”.
Quali sono stati gli scrittori che più hanno influito sulla tua formazione? Quali sono i libri che nonostante il trascorrere del tempo tieni ancora sul comodino?
“Cesare Pavese, Dino Campana e Rimbaud, Mallarmé, Apollinaire e poi gli americani Edgar Allan Poe, Ernest Hemingway, John Ernst Steinbeck e tanti altri…compresi tutti quelli dei poeti dialettali non solo romagnoli. Sul comodino? No, li ho in ordine sparso in quattro librerie, più un centinaio in diversi scatoloni che tengo per terra in casa per ragioni di spazio e in garage, con disappunto di mia moglie che ha grande pazienza…”.
Il tuo primo libro di poesie pubblicato a trentatré anni ha per titolo Ogni canto è finito (Todariana, 1972), un titolo davvero potente. Nel libro cammini tra le macerie della nostra civiltà, creando un ponte tra la guerra che ha segnato la tua infanzia e l’Italia degli anni Settanta in pieno sviluppo industriale. Cosa non ha funzionato nella ‘ricostruzione’?
Sì, come ebbe a scrivere l’Editore-Poeta Teodoro Giùttari: “I segni dell’infanzia travagliata e il ricordo delle terribili esperienze della famiglia danno alimento alla poesia di Argnani che si presenta ai lettori e alla critica come un testimone del tempo, sopravvissuto ad una tragedia che solo in apparenza è terminata con la guerra, la morte del padre in un campo di concentramento nazista a Bonn a Rhein e poi il dopoguerra, la miseria, le lotte per la sopravvivenza del nostro mondo contadino… Poesia vibrante e di risentimento, specchio di una coscienza vigile e indignata”.
Ogni canto è finito parla dei deserti sconfinati che ci portiamo dentro in assenza di valori. La situazione è cambiata oggi, o credi che il libro sia ancora attuale?
Sì oggi la situazione è diversa ma con tutto ciò che succede nel mondo credo che quelle mie parole possano rispecchiare anche la realtà di oggi come quella degli anni 1993-1995, ripensando ai miei antichi versi di “Stari Most” (Ed. Campanotto 1998) ispirati dalla guerra di Bosnia-Erzegovina e con versione in croato di Luci Zuvela, e testimonianze di Maurizio Pallante, del poeta slavo di Mostar Dinko Glibo e versione in tedesco di Francesca De Manzoni e in inglese di Peter George Russell. E Mario Rigoni Stern che nel suo contributo scrive: “Stari Most, dolente poema, ma speriamo in un luminoso autunno di pace e di ricostruzione perché, infine, rinasca la primavera.” E Mariella Bettarini: “Stari Most è un poema “intenso e toccante”; un doloroso, forte ponte di parole, a tentare di riparare allo scempio del glorioso ponte di Mostar e d’un conflitto terribile”.
Nel 1972 ti domandavi se la poesia fosse inutile. Sei riuscito a trovare una risposta?
Da allora è trascorso tanto tempo e infiniti sono gli avvenimenti, i cambiamenti della storia e degli uomini come quelli letterari. Credo che la poesia possa aiutare meglio e indurre le menti alla riflessione e alla ricerca, soprattutto la cosiddetta ‘poesia dell’impegno civile’. E da allora a oggi in Italia i poeti sono sempre in aumento e anche in tutto il mondo come si legge sulle riviste culturali e l’aumento di opere che continuo a ricevere da varie parti del mondo. Ma la poesia da sola non può risolvere i problemi del mondo.
I ricordi di guerra si fondono alla violenza delle lotte studentesche, in un protrarsi di violenza. Mi verrebbe da definirti come un “poeta di guerra in tempo di pace”. Credi che sia qualcosa di superato o che la violenza di quei giorni sia sempre in agguato in società come la nostra?
È difficile fare confronti: la guerra è l’atto più insensato che l’uomo possa fare da sempre. La “lotta studentesca” è stata lotta di protesta contro le ingiustizie e oggi può essere ancora vitale purché non sfoci in pura violenza. Ma pensando a tutte le tragedie che da anni viviamo nel mondo oggi non c’è nulla di superato, forse è ancora peggio.
Da allora sono seguiti altri importanti libri e premi letterari, come La città mugolante (1975), I lager fra noi (1978), Passante (1987), La casa delle parole (1988). Un momento che mi pare importante sottolineare è la pubblicazione di Stari Most nel 1998, dedicato al conflitto della Jugoslavia. Sembra segnare la riprova di quanto affermavi in Ogni canto è finito, dove si manifesta ancora la rabbia del poeta verso coloro che ostacolano il “canto generale della pace”. Nonostante questo, il libro è frutto di molteplici collaborazioni e si presenta con la traduzione in tedesco, inglese e croato. È il segno che l’arte riesce a ricostruire i ponti che la guerra distrugge?
Certo. L’arte, la poesia, la narrativa rappresentano nuovi ponti d’incontro. Ma non possiamo illuderci perché il “canto generale della pace” è spesso cancellato dall’ira degli uomini.
Durante la tua vita ti sei anche interessato di poesia visiva. Vuoi spiegare brevemente di cosa si tratta e in che modo l’hai praticata?
La poesia visiva nasce da tutte quelle sperimentazioni artistiche e letterarie compiute nel clima della Neoavanguardia, a partire dagli anni sessanta del XX secolo. È dalla rinascita culturale del secondo dopoguerra che le ricerche verbo-visive (espressione fra parola e segno-disegno grafico) hanno avuto il loro punto di partenza in Italia, soprattutto grazie all’arte dei due principali mecenati, se così possiamo dire, quali Lamberto Pignotti e il fiorentino Eugenio Miccini che ho avuto la fortuna della loro stima e amicizia.
Quali sono stati per te gli incontri più significativi nell’arco di tutti questi anni dedicati all’arte? Hai qualche aneddoto da raccontare?
Fra i miei incontri più significativi il primo risale ai primi anni settanta con Roberto Roversi: ero a Bologna per un convegno letterario e, grazie a comuni amici, fui presentato a Roversi che, dopo una lunga conversazione, mi invitò ad andarlo a trovare nel suo studio bolognese per parlare di letteratura e poesia e da allora fino alla sua scomparsa fu un rapporto di vera amicizia e reciproca stima e, per me, di grande insegnamento. Poi non posso non ricordare altri critici e poeti coi quali ho avuto e ho ottima stima quali: Giorgio Bàrberi Squarotti, Giorgio Celli, Eugenio Miccini, Raffaello Baldini, Pietro Cimatti, Andrea Zanzotto, Luigi Fontanella, Valerio Magrelli, Silvia Cecchi, Mario Rigoni Stern, Ferruccio Brugnaro, Benito La Mantia, Domenico Cara, Luciano Foglietta, Renato Turci, Lucì Zuvela, Maurizio Pallante, Predrag Matvejvi?…
Con Giorgio Celli poi, oltre all’amicizia, nacque una lunga collaborazione per presentazioni di libri e vari interventi oltre che all’Università di Bologna in giro per tutta la Romagna (Ravenna, Forlì, Cesena, Santarcangelo di Romagna…) e la sua continua partecipazione alla manifestazione “Poesia e natura nel Parco” che ogni anno si ripete in diverse località montane fra Romagna e Toscana e che con quest’anno sono state 29 edizioni a cura del Centro Culturale L’Ortica di Forlì.
Quest’anno hai compiuto ottant’anni, e la domanda è d’obbligo: scrivi ancora poesie?
Da qualche anno a questa parte ho scritto poco, però rivedo e rileggo vecchie cose inedite (poesie e prose). In compenso leggo i versi di tanti poeti italiani e stranieri che mi regalano i loro libri e che poi recensisco soprattutto sulla rivista forlivese L’Ortica e su altre testate italiane e straniere.
Di mio conservo un ‘poemetto erotico’ di alcuni anni fa, in parte pubblicato su riviste.
ALCUNE POESIE
E ci fu una città eretta nella pianura che tremava allo sferragliare di treni. Torno torno un infinito di deserti dove l’ansia di vivere toccava bave di iene. Giungemmo col bagaglio sulle schiene e avemmo voglia di scaldarci sotto una pioggia di raggi che titillava la terra ma c’erano ossa a denotare fame di cani e un segnale indicava sosta vietata. Ogni attimo ritmava di fuoco portandoci l’eco di batterie d’oro e per le strade la gente raccoglieva sguardi con intese frenetiche di gesti. Fummo accolti da applausi di sprezzo e nel circolo chiuso di edifici ci perdemmo nel traffico ignoto di semafori.
(D. Argnani, Ogni canto è finito, 1972)
Io sono nerone che brucia roma con tutti i farisei
s’è infranta la breccia nel muro dei sogni e ora la bella carne divina diventa liscia al sole e al buio
s’erge all’ombra su confini di strade e di lussuria
Io sono nerone che brucia il nulla e l’eterno
(D. Argnani, Stati Most, 1998)
Fotografia di Daniele Ferroni
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