LUCIA TRIOLO SU PIANTI PIANO DI ELIZA MACADAN

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Pianti piano (“sommessi” come suggerisce Amedeo Anelli nella presentazione; quasi per “non far troppo male” aggiungo io) è il titolo che designa con delicata ma suggestiva espressività l’ultima recentissima raccolta di poesie di Eliza Macadan (Passigli, Settembre 2019). Una raccolta di poesie quasi tutte brevi, articolata in quattro momenti: Il nickel dell’attesa, L’ombra espulsa, Occhiospecchiom, Lettere di fretta.

Ultima raccolta, dicevo. Ma non solo nel senso temporale. Ultima soprattutto in un senso assai più intimo e profondo che ci si rivela imperioso quando sorprendiamo l’autrice ad avvertirci, in un contesto di drammatica e intensa memoria: “per te io non sono più/ che queste parole”- p.71-)
In quel “per te” possiamo incontrare noi, ciascuno di noi.
Ed è facile rendersene conto non appena ci si chieda a cosa attribuire quei “pianti” cui viene intitolato il testo. La risposta non si fa attendere:
“La tristezza è un campanello
Suona il risveglio della coscienza
La prossima estate mi vorrai ancora?
Nella piazza assolata
Tutto passa
Tutto finisce
Tutto muore
E anche l’amore” (p. 7)
E’ un dolore di fondo che apre il gioco ad incastro di queste poesie, un dolore, in molti sensi ultimo. che ambisce in qualche modo all’ultima parola appunto. E che si manifesta anche con il volto di una paura, la paura di essere lasciata sola: “la paura che tutti mi abbandonino” (p.15)
Ed ecco ancora il coinvolgimento del lettore: quanti di noi, nella denuncia/ammissione del dolore che quella paura si porta dentro!
Non si tratta però di un dolore sterile, infecondo, irredimibile. Tutt’altro. Quello della poesia di Macadan è uno sguardo che “vede” il dolore come l’avesse davanti a sé, senza lasciarsene soffocare. O travolgere. Nel risveglio della coscienza
“prendo il dolore
lo poso sulle mie ginocchia
lo accarezzo bisbiglio quasi gli parlo
gli dico che staremo bene
saremo pace
lo guardo negli occhi
e ricominciamo da capo” (p. 42)
Quadri di una vita sofferta, quelli che Macadan fa scivolare uno dopo l’altro sotto i nostri occhi: a tratti una vita dai colori fortemente drammatici (si veda ad. es. la lancinante confessione della poesia n. XI di “Lettere di fretta” a p.71), sempre una vita che per un verso cerca di capire e di capirsi nella contemporaneità, nel mondo delle app e dei desktop (p. 14), ma per altro verso proprio in questo tipo di mondo, ha coscienza di un sapere di sé in un tempo buio (p. 15).
Quanto possiamo veramente essere noi stessi se “non scegliamo che le bugie da dire” (p.8), se la nostra casa “è solo un albergo di puttane” in cui ci si ritrova come “una mendicante…espulsa dall’ordine…in attesa di salire le scale/ dopo di te” (p.27).
E il tema dell’attesa è anche il tema di un’aspettativa d’amore sempre irrisolta e sempre rinnovantesi:
“quelli che amo sono sparsi
per il mondo
tra paesini e metropoli
intorno a me questa domenica
mi soffoca con la bava
dell’attesa” (p. 41).
Da questa attesa al desiderio di abbracciare il tempo, di abbracciare l’altro, di abbracciare l’altro continente il passo è breve (“questo è un letto/poggiato su due continenti” -p.63- e ancora “dormiamo su due/continenti diversi”-p. 72-). Si tratta di una delle cifre salienti dei versi di Pianti piano. E così ancora una volta si crea quel palcoscenico di riferimento in cui ciascuno può facilmente ritrovarsi: l’emozione di un sapersi solo (“impara/impara il valore della solitudine” p. 81), di un guardarsi che si apre, si slancia verso l’altro
“…guardo
e mi guardo mentre guardo
ed è così che
ti aspetto” (p. 51)
Uno sguardo disincantato dunque, con numerosi e improvvisi accenti finemente ironici (“…sono di più i ceci/ che ti mangi ad ogni pasto/dei nostri anni insieme” -p. 19-, “oggi i preti sono allegri/nel palmo mi pulsano i punti cardinali” -p.47-, per non indicarne che alcuni). Ma soprattutto uno sguardo che costituisce attraversamento di un tempo che diviene anche luogo: di volta in volta Venezia, Bucarest, Parigi, Oxford, l’eden (p. 57) il “collegio dei gesuiti” (p. 72). O anche “il tuo capezzale”:
“ora tutte le madri le sorelle
che ti mancavano lì
passano in fila al tuo capezzale
per rimettere a posto
pezzi della tua anima” ( p.72)
e dove si staglia, e a tratti diviene presenza invocata, Dio (cfr. ad es. le poesie di “Occhiospecchio” a p. 35 e 47, poi anche la poesia I di “Lettere di fretta” p. 61 “all’infinito” p. 69, e ancora “ho sbagliato tutto” p. 71…).
Pur senza voler ridurre la complessità delle situazioni emotive che questo bel testo di Eliza Macadan ci offre, direi che in Pianti piano, è il timbro dell’inafferrabilità ciò che caratterizza il dolore da cui si sprigiona il pianto. Inafferrabilità del rapporto umano (anche d’amore: cfr. facevano lunghe passeggiate serali p.65, o non piangere p. 67), dell’abitare tempi e luoghi, di un abitare se stessi che conosce “solo l’indicativo presente” (p.80) mentre è incessantemente sbattuto tra il passato e il futuro:
“non piangere
lo sapevamo prima di arrivare
come si sta in questa vita
appena conosciuti ci si lascia
appena imparato a vivere
si riparte
non piangere
siamo stati fortunati
abbiamo guardato da vicino
nelle nostre anime
quell’infinito dove
sapremo riconoscerci
non piangere
proseguiamo il nostro volo
qui gli antichi si prendono ancora gioco
di noi sai che non so sai che non sai niente
non piangere
anche le dee fanno le guerre
indecise solo tra uccidere o amare” (p. 67)

Lucia Triolo

ELIZA MACADAN
PIANTI PIANO
Passigli Editore, Firenze 2019