Il mito non come inesauribile raccolta di storie e carriere vitali ma come paradigma di esistenze possibili è il nucleo su cui si fonda
Il confine dell’isola di Roberta Ioli. La tradizione è data, dunque, ma si rinnova, capace di una prolificità che inventa (nell’accezione, non secondaria, del “ritrovare”) e si rimodula secondo toni antichi e tuttavia modernissimi: il mito, in quest’ottica, stipula un patto saldo tra passato e presente, pone in essere, e quasi impone, la reciprocità tra quanto accaduto e quanto accade o può accadere; rifugge gli scarti di una archeologia fossile e diventa invece fertile strumento di conoscenza anzitutto verso se stessi e la propria storia, perché in esso siamo anche noi.
Il confine dell’isola realizza tutto questo attraverso il passaggio sulla scena di cinque figure mitiche – Telemaco, Euriclea, Penelope, Odisseo, Calipso – che altro non sono che cinque maschere (o ancora: paradigmi) dell’essere umano, magari anche intesi come momenti o azioni differenti dell’anima e dell’io poetico: la speranza, la cura, l’attesa, l’inganno, l’incanto. Cinque figure e al contempo cinque metafore di vita o di
passaggi necessari alla vita: perché è nell’esperienza dell’uomo attraversare lo stupore per la bellezza, la consapevolezza della caducità, l’apprensione dell’attesa, la paziente, amorevole attenzione verso un’altra vita che cresce e si forma. Se il tracciato dell’esistenza può essere letto e rappresentato nel mito, il linguaggio, a sua volta, si fa erede di una tradizione che si fissa sulla classicità investendola però di movimento, attraverso una lettura insistentemente metaforica che è la chiave della attualizzazione e della riscrittura di un passato ancestrale: “il fiore giallo della colpa” (p. 16), “nessuna violenza nel verde della sera” (p. 21), “scrivere di tramonti incendiati / pensarti pallida mentre stringi al petto il primo nato / era il suo fuoco di fortuna contro i lupi” (p. 30), “oggi il nemico è ciò che resta dello scontro / la traccia vuota del tuo ritorno” (p. 44), “l’acqua è finalmente cielo” (p. 63). Si instaura così un rapporto fecondo fra i due poli portanti della raccolta, e cioè “cielo” e “terra”. Da un lato l’apertura, il vuoto, l’aria, forse il nulla: e il nome; dall’altro la chiusura, il “pieno”, il corpo: e la cosa. Nomi e cose (
verba et
res), la cui fusione è il confine, è l’immagine dell’isola. Che “isola”, appunto, chiude, ma anche apre al mare, al viaggio, e a tutto ciò che ad esso si lega; immagine che forse ci suggerisce qualcosa della non facilmente sanabile relazione tra realtà e parola: “Il tuo nome, voce verticale che lega testa e cuore / il tuo nome sulle labbra del mondo / è una preghiera da dire piano, da tenere quando si ha paura” (p. 20), “col mio impaccio d’armi e menzogne / con la mia gabbia d’uomo / abituato a parole di uomini” (p. 56). Il tema di questa relazione è particolarmente evidente nell’ultima sezione-figura,
Calipso, la nereide che rivela e nasconde con il proprio canto, che vuol trattenere ma che deve lasciar partire, la figura in cui si incarna il dilemma dell’avere che è intrinsecamente connesso a quello dell’
essere:
Ma se lo lascio partire
un deserto la casa il cortile le viole
io credo che allora come il mulo
dondolerei nel pigro della sera
come piange la cagna senza figli
finché non torna il padrone.
Allora, Dio, fammi calce nel sole.
Sarò una pietra che non si definisce
polvere consumata dalla luce
senza contorno né ragione. Ma se confine
fosse acqua e non terra, un’onda
ribelle alla misura, allora
nel diverso nome scriverei il mio.
Calipso ha necessità della relazione con l’altro, la richiede per definirsi per dare a se stessa e quindi al mondo che la circonda un senso, appunto, un confine; in questa sua tensione all’altro da sé probabilmente incarna in misura potente quel bisogno che è dell’uomo, come del poeta, di trovare il proprio posto dal quale, come un nuovo Adamo, possa nominare, definire, impostare la conoscenza del mondo che è anzitutto veicolata dalla parola:
A lui chiedevo argini e centro
la pesatura perfetta del mio nome.
Finché c’era, come lui mi credevo un corpo
che la luce non trapassa, un piede
che si incide sulla sabbia.
E invece sono un passaggio tra le cose
così leggero che mi involo con le foglie.
La parola è un corpo, ma per Calipso questo funziona solo nella reciprocità; la solitudine implica invece la caduta di ogni certezza, anche linguistica, fino alla negazione di sé, alla reificazione in oggetto muto e informe (pietra, polvere). Se Calipso racchiudesse in sé l’immagine del poeta, tutto ciò che le rimane dopo l’ultimo abbandono appare essere uno sguardo aperto verso l’alterità superiore e suprema dell’orizzonte marino, del vento che trasporta i corpi leggeri; sguardo che rappresenta però anche l’illimitata e vastissima possibilità del nominabile e del dicibile.