Franca Alaimo “Vite ordinarie” (Ladolfi Editore)
Lettura a cura di Guglielmo Peralta
“Giovanna amava la musica che fanno certe parole (…): «Rosa za-gra-bien-sis»”.
Siamo agli inizi del romanzo, e il sopraddetto enunciato è il biglietto da visita, la prima tessera che introduce, che dà inizio alla composizione del grande “ritratto” della nostra Autrice. È un dato biografico importante, connotativo, che lascia intuire una propensione, una disposizione dell’anima annunciando, quasi in modo predittivo, la futura passione di Franca Alaimo per la poesia: un amore più avanti dichiarato e che il linguaggio rende manifesto con la carica fortemente espressiva delle sue figurazioni e con le descrizioni minuziose, curate nei minimi particolari, della natura e dei tratti fisici e psicologici dei personaggi. È un dire che scaturisce dalla memoria e che, attraverso i ricordi, evolve in una rete “sinestetica”, in una felice consonanza di percezioni, volizioni, sentimenti, emozioni, che è vita psichica, «esperienza vissuta», nel senso dell’Erlebnis diltheyano, cioè come l’insieme dei contenuti essenziali colti dalla coscienza nel suo fluire e in grado di ampliare l’orizzonte dell’esperienza personale, per acquisire un’esperienza storica, del mondo, e quindi per comprendere le ragioni dell’agire umano, che sono sempre di natura psichica, spirituale.
In Franca Alaimo questa “esperienza”, qui espressa, resa manifesta attraverso il linguaggio altamente creativo, è il frutto di quella sete di sapere, di conoscenza, che l’ha accompagnata fin da quando era bambina, sempre sollecitata da una grande curiosità e attratta dal “potere magico delle parole”, capace di annullare il tempo o dilatarlo in “una dimensione al di sopra del tempo individuale, senza confini dove tutto ciò che è comune si ritraeva a favore di un’emozione inesprimibile”. È lo stupore generato dalla poesia a fermare il tempo, ad eternare l’istante mettendo il mondo in parentesi e a sospendere la morte. La quale domina, è protagonista di questo romanzo, che prende l’avvio con la notizia della morte di Nina, la cugina tanto amata da Giovanna dietro cui si cela (ma non troppo) la nostra Autrice, voce narrante in terza persona, che parla in uno spazio extra-diegetico o pseudo narrativo, perché chi racconta è soprattutto il suo alter ego, Giovanna, alla quale ella affida i propri pensieri e i ricordi, dentro cui parlano Nina, che si fa così viva e dolente presenza, e molti altri “personaggi”, o meglio, persone, – alcune defunte, altre ancora viventi – a lei strettamente legate dal vincolo di parentela, d’amicizia o dall’amore di gioventù. Sulla scena della memoria esse affiorano, agiscono ed esplodono venendo incontro a Giovanna e a noi lettori. Tutte acquistano un particolare spessore – anche i morti, che tornano ad essere ancora più vitali – nel ricordo e nella descrizione fisica e psicologica, così curata nei particolari, così realistica che esse sembrano figure disegnate, simili ai trompe-l’œil. .E accanto a loro si muovono, discreti, impacciati o curiosi, semplici conoscenti, relegati al ruolo di comparsa e persone quasi dimenticate, che riappaiono nella veste di visitatori, nella triste occasione del lutto. Tutte agiscono, tutte hanno una storia o qualcosa da raccontare dentro la “cornice” della veglia funebre. L’impianto, la struttura del romanzo sembra richiamare il Decameron del Boccaccio, nonostante le molte differenze: di lingua, stile, ambientazione, architettura, numero dei personaggi, contenuti o temi delle storie narrate. Entrambe le opere prendono l’avvio dal tragico evento della morte. Nel Decameron, essa è il flagello della peste, che imperversa nella città di Firenze ed è tenuta fuori da dieci giovani che se ne tengono lontani, al riparo in una villa di campagna, ed è esorcizzata attraverso le loro narrazioni nell’arco di dieci giornate. In questo romanzo dell’Alaimo, la morte è presente nel cadavere di Nina. Qui, tutto avviene in una giornata, nell’atmosfera dei ricordi, che la raffinata elaborazione letteraria rende rarefatta, spesso trasognata, quando l’elemento poetico irrompe nella narrazione creando il distacco inevitabile dalla triste realtà. Ed è in questi istanti di grazia che la morte è sospesa, esorcizzata; il corpo di Nina consegnato alla morte, il suo cadavere e il feretro sfumano, scompaiono, perché lì, nella stanza della veglia, entra prepotente la vita: quella sua e quella di tanti altri che, attraverso il racconto di Giovanna, ci vengono incontro con le loro storie. In questo incastro narrativo, in cui queste vite affioranti si raccontano attraverso Giovanna, la quale, a sua volta, parla dentro la voce “fuori campo”, extra-diegetica dell’Autrice, si raccoglie il passato, il tempo perduto e ritrovato attraverso la memoria risvegliata dall’evento funebre e dalla presenza dei visitatori, alcuni dei quali s’inseriscono in questa “cornice” memorativa completandone il quadro narrativo, costruito sulle epifanie delle “vite ordinarie”, rese straordinarie dal realismo magico con cui Franca Alaimo descrive, evocandoli, traendoli fuori dalla nebbia del tempo, alcuni aspetti particolari offrendoci di esse un intarsio emotivo, un ritaglio di grande valenza poetica. Ricordiamo la bellissima e delicata figura di Sebastian, attratto, fin da bambino, dalla “voce del mare”, dal suo “urlo” che lo rendeva felice, desideroso di viaggiare fino ai confini del mondo; che lo faceva sentire libero e vagabondo, incurante di mettere radici nella propria terra, nel proprio villaggio, nel momento in cui avvertiva la sensazione che tutto potesse mutare, “che tutto fosse mobile e senza fondamenta come l’acqua” e “potesse scomparire all’improvviso”, come la cappella accanto al molo, inghiottita dal mare in una “notte di tempesta”. C’è magia in Sebastian, perché egli “ha il vizio di leggere” e, dunque, “possiede l’arte di raccontare”. E c’è pathos nella sua storia, nella sua vita intessuta d’amore, ma anche di solitudine, di depressione, di dolore. Sentimenti, questi, che hanno il volto di tutti gli uomini; che appartengono, dunque, anche al lettore e lo coinvolgono, perché la narrazione li soffonde di luce poetica, che toglie quell’alone di pesantezza sublimandoli e rendendoli sublimi fino all’immedesimazione. L’anima bella e profonda di Giovanna compie questo “miracolo”. Anche quando i suoi ricordi riempiono la stanza dei “fantasmi” del passato, la poesia inter-viene ad esorcizzarli, a fugarli, facendo emergere i valori fondamentali che non l’hanno mai abbandonata, che l’hanno sostenuta nel suo difficile cammino esistenziale proteggendola contro i traumi dell’infanzia. Da questo “segmento” doloroso, che segna un’intera esistenza, nasce questo romanzo, come bisogno, forse inconsapevole dell’Autrice, di esorcizzare, di rimuovere definitivamente dalla coscienza il «vissuto», fonte di angoscia.
Franca Alaimo non è solo l’Autrice. Ella resta dietro le quinte, fuori della scena, della quale è spettatrice e “attrice” col nome di Giovanna, protagonista assoluta del romanzo, alla quale affida la propria biografia e il proprio mondo interiore. Solo così la sua vita può essere raccontata accanto alle altre vite, la cui ordinarietà è un attributo psicologico che le serve ad equiparare, a mettere sullo stesso livello la propria vita e quella degli altri, eliminando dalla propria quel disagio, quel blocco emotivo che gliela fa apparire e considerare diversa, sfortunata, infelice e, dunque, fuori dalla normalità. Solo se ella assiste, come un’estranea, alla rappresentazione della propria vita nei suoi aspetti più dolorosi può avvenire la catarsi, è possibile demolire le pareti della stanza chiusa e opprimente, che non è quella di Nina, della veglia funebre, ma della prima infanzia trascorsa in un brefotrofio. E, tuttavia, la morte, sebbene presente e reale nel cadavere della cugina, in quanto dà avvio al romanzo, è, al tempo stesso, metafora di quella sezione della vita, di quella tragica esperienza della quale Giovanna, ovvero, Franca, ha bisogno di essere assolutamente liberata. La possibilità che ciò accada è affidata alla narrazione, a quel “potere magico delle parole” in grado di suscitare stupore, “emozioni inesprimibili” e che può in-vestire di luce nuova le cose, la quotidianità, e rendere straordinarie le “vite ordinarie”. Il linguaggio poetico e l’amore, che trovano forza e corrispondenza nella bellezza della natura, espressa ed elargita abbondantemente nel romanzo insieme con le parole innamorate, possono compiere il miracolo, realizzare la metamorfosi, fare di una vita un capolavoro, qualcosa di autentico. Questo è il sogno di Giovanna, di Franca, che con la nascita ha ricevuto in dono la passione per la lettura e la grazia della poesia. In quest’opera, accanto agli aspetti autobiografici, risalta la biografia interiore, una scrittura introspettiva che è biopoesia: vita che diviene, che si fa poesia e, viceversa, poesia che si fa vita, tempo decantato, che si libera della memoria, del dolore di ricordare, tempo non solo della ricerca, ma del racconto e della cura soprattutto; che abbraccia le altre vite, che sa ascoltare, perdonare; poesia, dunque, come valore assoluto, necessità e salvezza.
Espressione di un’anima grande è questa scrittura dell’interiorità, che, in più luoghi del romanzo, rende palese la sensibilità particolare di Giovanna, la quale stabilisce una corrispondenza, una comunione con la natura, tale che tutti i sensi sono interessati, con l’effetto di uno stupore rinnovato. Ella, inoltre, riconosce un’anima, una natura segreta agli oggetti che le sollecitano profonde riflessioni e la commuovono:
“Provò nel vedere quegli oggetti una sensazione di tristezza e poi di stupore come se non fosse possibile che essi fossero sopravvissuti alla morte della loro proprietaria. E infine si commosse pensando che forse essi trattenevano in sé un qualche cosa di lei, il respiro, il calore, un residuo di vita”.
La poesia è la sorgente di questa scrittura così intima, appassionata, comunicativa, epifanica, di Franca Alaimo, ed è il suo punto di forza, che, come si evince dai seguenti versi della sua raccolta che precede il romanzo, le dà la certezza che tutto possa cambiare; che da tanto dolore, entrato nella sua vita “a porte spalancate”, possa fiorire il tempo della gioia. Una possibilità concreta, questa, per cui ella, sebbene “stanca, sola e piena di anni”, resta fiduciosa, “sulla soglia di casa”, in attesa della fioritura:
“Ma che lungo spavento / è stata la storia dei miei sentimenti / Però quante emozioni, / quanti ricordi e che bellissime rose / sono nate da questo roveto./ Adesso sono stanca, sola e piena di anni./ Tuttavia sto ancora sulla soglia di casa, la porta spalancata. Aspetto. / Aspetto.”