“Anestesia e perturbamento”. Nota di lettura a Senza titolo di Manuel de Freitas e Federica Gullotta (Edb edizioni, 2019)
di Eleonora Rimolo
È materia solida quella che attraversa i versi di Manuel de Freitas (tradotti da Roberto Maggiani) e di Federica Gullotta in questo loro libro privo di titolo pubblicato da Ebd edizioni, a cura di Alberto Pellegatta: scorie di cose passate, di ambiguità presenti e di timori futuri. Ciò che è necessario fare secondo questi due autori è perturbare il lettore attraverso una poesia concitata, a tratti violenta, acuta, che non teme di dire quello che vede così come lo vede, anche e soprattutto nella sua miseria. La dimensione umana viene ridotta ad un mero punto dell’universo imprecisato, e questo libro dimostra come sia oramai ridicolo parlare di Io in poesia senza dire Noi: noi che siamo solo “residui/della placenta che coinvolgono/una serie di organi” (de Freitas), non possiamo che stupirci di fronte all’inutilità e alla pochezza della nostra stessa esistenza. È “l’inconveniente di essere nati” di Cioran, “dolorosamente semplice” (de Freitas) nella sua ovvietà che però produce poesia – “materia di disastro”, come la chiama de Freitas, mentre “il mostro che ci abitava” (de Freitas) è stato inghiottito dal nostro stesso sgomento, dalla nostra assoluta resa (“vorrai chiedere scusa e punto” – Gullotta). E se quindi siamo solo “l’idea malata di un drogato” (Gullotta) cosa resta da fare? Più che la morte, l’“impotenza”, suggerisce Federica Gullotta: la figura umana nei suoi versi infatti si “appiattisce”, quasi scompare, si riduce ad un filtro attraverso cui la vita giunge ai nostri occhi distorta, forse reale, mentre in de Freitas si accartoccia quasi su se stessa in un perverso gioco al massacro. L’azzardo è trarre poesia da questo sordido nulla che ci appartiene (e forse per questo la scelta di lasciare il libro senza un titolo), dare un “esempio pericoloso” (Gullotta) di ricerca, costante e tensiva di un centro, di un nucleo ultimo, essenziale, scabro e vero di ciò che siamo: una resistenza contro l’anestesia a cui ci costringe il quotidiano. “Infelicemente esisto” afferma senza retorica de Freitas con cipiglio pessoano, e questa presa di coscienza – e di posizione così chiara non può che condurci ad una volontà ferrea di sopravvivenza a tutti i costi, anche (o soprattutto) traendo godimento dal dolore – subìto o inflitto agli oggetti e alle persone. È un affidarsi completamente alla visione, all’ “angelo bianco che esce dal frigorifero” (Gullotta) e che non annuncia niente, semplicemente acceca, per poi andare via. Questa poesia non consola di certo, ma sicuramente denuncia, agghiaccia, punta il dito contro se stessa e contro le umane turpitudini: non nasconde niente, nessuna sorpresa, nessuna catarsi (“Non c’è niente di invisibile; la forma della notte è piatta” Gullotta) ma ci rivela in anticipo quanto presto saremo stanchi di vivere, di scrivere (forse), di sentire. È una stanchezza fisiologica, ci avvolgerà finché “non vorrai vedere più” (Gullotta) e sarà forse proprio in fondo a quella tristezza così incontrovertibile, così scolpita da questi versi, che “l’immagine sarà cancellata” (Gullotta) – e rimarrà un grido soltanto (di aiuto, di testimonianza, di amore): “Fate che alla fine di questo prato ci sia altro prato spontaneo o indotto” (Gullotta). Fatelo, dunque, perché è solo grazie alla poesia che sarà possibile sapere con assoluta chiarezza “quanto prato c’è ancora” (Gullotta).