Dana Szeflan Bell, Danusia – La storia di una bambina sopravvissuta – (traduzione di Francesco Todaro), Borgomanero (NO), Giuliano Ladolfi Editore, 2017, pp. 124, euro 12,00.
Cosa succede quando il ricordo è talmente duro e orribile da non poter essere nemmeno verbalizzato? Quando non è possibile dargli un senso, una collocazione nel divenire del nostro passato?
Resta sempre freudianamente accreditata la tesi che i ricordi di avvenimenti traumatici possano essere rimossi dalla coscienza per un istinto di autoconservazione. Sorvolando sulle numerose teorie psichiatriche a riguardo, mi limito a riferirmi ad un concetto messo in evidenza, per le conoscenze acquisite in epoca successiva, anche nel libro della nostra autrice: quello di Disturbo Post Traumatico da Stress: un fattore traumatico estremo che implica un’esperienza personale molto forte: una paura intensa, il sentirsi inerme o il provare orrore per qualcosa. I sintomi caratteristici che risultano dall’esposizione ad un trauma estremo includono il continuo rivivere l’evento traumatico. Per chi ha vissuto queste esperienze traumatiche, dunque, ricordarle è come riviverle. Gli eventi traumatici del passato sono richiamati con tale vividezza e intensità emotiva che sembra quasi che il trauma si stia riverificando. Nei campi di concentramento, tra le tante cose distrutte e sterminate, c’era anche la memoria stessa: moltissime persone lamentavano vuoti di memoria, in molti casi un’inconscia rimozione. Anche in seguito, quando l’esperienza è ormai conclusa e superata, rimettere insieme i pezzi di ciò che è successo e raccontarlo con coerenza narrativa pare addirittura impossibile, ma l’incapacità o la supposta incapacità di raccontare, non significa avere dimenticato. Esattamente quello che capita all’ormai adulta Danusia, che tra le mani stringe le poche foto di famiglia, cucite dalla mamma nei risvolti di un cappotto e miracolosamente superstiti, quando viene invitata a raccontarsi in un’intervista. Mi sono soffermata su questa premessa per mettere in risalto l’atto di coraggio dell’autrice, disposta a mettere di nuovo a fuoco l’enormità di quel dolore passato. Perché lo fa? Solamente “nella speranza che possa aiutare le future generazioni a capire cosa è accaduto a delle persone degne di rispetto per mano di un regime di pazzi sotto il dominio del terrore”. Spero vivamente che, almeno, questa operazione sia stata per lei di aiuto terapeutico, permettendole di recuperare anche tanti momenti positivi di quella bella famiglia che non esiste più, se non nei ricordi di lei sopravvissuta. A lei a e chiunque compie un gesto simile deve arrivare il nostro consapevole grazie, unito alla volontà di raccogliere la sua testimonianza come un dono prezioso. Inutile dire che, al pari degli intervistatori, anch’io mi sono commossa nella rivisitazione di questo inferno in terra, che appare ancora più terribile dopo la descrizione del periodo felice e spensierato vissuto dai suoi cari, prima dell’avvento di Hitler. Gli eventi storici non possono essere compresi da una bambina così piccola, ma i suoi occhi, la sua pelle, tutto il suo essere provato fino allo stremo delle forze, ne registrano progressivamente gli effetti con incredibile lucidità, restituendoci interamente lo scenario di impensabile follia che ha imperversato in quegli anni. Tuttavia è necessario ricordare, porre davanti agli occhi di chi spesso non ha mai conosciuto disagi e per questo fatica a crederci, di quali abissi di male può essere capace l’uomo. Ricordiamoci il bel libro di Hannah Arendt, la “filosofa del male”, autrice de La banalità del male (1963): un resoconto sul processo all’ufficiale nazista Adolf Eichmann che aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei nei vari campi di concentramento e di sterminio. Quando, nel 1960, fu catturato in Argentina, dove si era rifugiato, e fu finalmente condannato, in sua difesa ebbe a dire che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Tuttavia ciò che la Arendt scorgeva in quest’uomo dall’aspetto così comune, non era tanto la stupidità o la mostruosità, ma l’incapacità di pensare. Per lui, che con cieca obbedienza aveva sempre agito all’interno di ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini, non si poneva il problema del giusto e dello sbagliato. E di uomini come lui ce ne erano tanti, uomini comuni, “normali”, capaci di dare il via, senza rendersene conto, ad azioni di atrocità inaudita. Sulla “banalità” del male, sulla facilità con cui il male si appropria dell’uomo si potrebbe, purtroppo, discutere a lungo. Questo è un libro che sfida la “banalità” del male. Il racconto dell’autrice, nel rivelare la sua storia, si fa scudo del pensiero e il pensiero cerca di raggiungere la profondità. Danusia si chiede drammaticamente il perché di questo male (leggere pag. 97), scava cercandone le radici, ma, frustrata, non trova risposte. Non le trova perché – dice la Arendt – il male non ha radici, solo il bene ha profondità e può essere integrale. Auguriamocelo.
Annalisa Macchia