Zamalek – un attimo prima del nulla
Zamalek. Solo andata, Terra d’ulivi Edizioni, 2018
di Luca R. Martini
Eliza Macadan, scrittrice e poetessa residente a Bucarest, ha un passato italiano (abbastanza lontano, ormai) che le ha permesso: a) di frequentare la nostra lingua e b) di dare espressione non gratuita a un suo vissuto che solo in italiano può essere detto – tutto questo sempre forse e forse secondo lei; Eliza Macadan scrive infatti poesie diverse in romeno e in francese, e non le compone contemporaneamente; sembra che scriva alternando blocchi temporali come si trattasse di piccole ere geologiche o di imprevedibili maree dell’anima.
Una civetteria della Macadan italiana è quella di giocare ad handicap e di non usare, nella nostra lingua, tempi verbali e strutture del periodo particolarmente complesse.
Eliza Macadan reagisce infatti al tempo imprigionandolo, decapitandolo a volte, irridendolo e facendosi irridere e ferire, mescolando in un presente continuo e continuamente messo sulla graticola del dubbio (“io conosco solo l’indicativo/ presente”, da Zamalek) ricordi, appropriazioni del momento, proiezioni future… La Macadan fa questo usando molto spesso l’indicativo presente appunto e riducendo i suoi versi a un’infinità di schegge – corrispondenti a stadi della sua vita che si giustappongono anche vertiginosamente – con il desiderio di fornirci (forse) una lezione di sapienza ancestrale mentre si esprime a mani per cosi dire nude, con una sintassi e una sintesi nuda delle cose (forse) essenziali della vita.
Zamalek. Solo andata (Terra D’ulivi, 2018), per esempio, la piu recente raccolta, è articolata in venti testi di varia lunghezza. Nonostante esibisca una coerenza tematica interna più solida o semplicemente evidente rispetto alle altre raccolte – è infatti “un poema come d’amore” – raccoglie la poesia italiana di Eliza Macadan nella sua modalità più riuscita.
Il tempo dell’amore che qui coinvolge e mescola da subito tempi e spazi fantastici lontanissimi tra loro – l’Egitto antico e i sogni di Biancaneve, i transiti di Marte e un teatrale cyberspazio di gesti virtuali – si presenta come un’assenza (“ora è l’ora/ non c’è più tempo/ neanche per me/ non c’è più un luogo/ per rimanere”); è un’assenza irrimediabile di cui il presente con le sue accensioni è la gabbia – qualcosa che somiglia a una tombale Piramide – e l’unica speranza di sfiorare l’altro da noi.
Che il tempo in ogni modo non porti che guai e in fondo sia meglio dimenticarlo o metterlo sotto chiave è chiaro poiché ‘appena conosciuti ci si lascia’.
Tuttavia come nelle opere più mature di Eliza Macadan c’è una traccia più pacata, discorsiva, quasi piana e quasi esplicativa che corrisponde al testo numero XIX e che richiama nella forma e nel tono una delle poesie più famose della Macadan, la Lettera da Bucarest (in Passi passati, Joker, 2016). Là c’era un sentimento della politica, qui una dichiarazione politica dei sentimenti, un atto e un appuntamento mancato che rivelano una proposta di ascesi, oppure un crepuscolo sottinteso che può abbagliare la vita ma non la poesia di un bagliore di felicità quotidiana – felicità che è invece piena, nei versi, nella rinuncia, se non nella plateale sconfitta.
Nonostante o proprio per questo, in Zamalek Eliza Macadan è al massimo della sua felicità compositiva e della sensualità capricciosa del suo scrivere versi, facendo affiorare nel magma delle citazioni e dei richiami colti anche un paio di riuscitissimi freeze frame: quando il poeta non dice io e guarda gli amanti con un’oggettività (per esempio nel segmento V) che è l’ultimo tentativo di salvare una possibilità di essere se stessi e contemporaneamente di essere tout court e di essere messi in scena.