Qualche parola su Progetto per S., di Simone Burratti, NEM, 2017
nota di lettura Tommaso di Dio
Cosa deve fare oggi un libro per poter essere detto di poesia? Se qualcuno volesse avvicinare il libro d’esordio di Simone Burratti con questo atteggiamento normativo e normante si ritroverebbe per fortuna perduto.
Progetto per S. – edito dalla storica Nuova Editrice Magenta, nella collana a cura di Viviana Faschi – come un’umida anguilla, scivola via ad ogni tentativo di presa. Se c’è un libro che quasi programmaticamente voglia sottrarsi ad ogni obbligo e schivi proteicamente ogni tentativo di cattura è questo: un libriccino che si mostra come un organismo disordinato e metamorfico, scaleno, astruso, smilzo e misantropo, malinconico, ombroso, sfuggente. Se proprio costretti con una pistola alle tempie, si potrebbe ammettere che sì, va bene: è una specie di diario; se questo termine però non alludesse ad un minimo di narratività e di quotidiana costanza, di ordine consecutivo e di vigore volontaristico che invece è sempre apparentemente disatteso, negato ad ogni voltare di pagina. Nondimeno Progetto per S. c’è, con le sue belle e assettate quattro sezioni che racchiudono 20 testi, per lo più in prosa; ed è un libro tutto sommato plausibile nel 2018 e che soltanto nella categoria sempre più bislacca di poesia poteva aspirare a trovare una sua minima collocazione.
Ad un occhio infatti che volesse addentrarsi nelle sue fessure, non sfuggirebbero i tanti, anzi, i lampanti segnali letterari di cui è costellato e che ne fanno in realtà una sintomatica conseguenza degli sviluppi più aggiornati delle italiche lettere. Ma detto questo bisogna subito aggiungere che, sebbene sia un libro che avverta come pochi altri la Stimmung del nostro momento letterario, in essa spicca per una caparbia profondità di risultato: Progetto per S. non è un libro fra i libri perché non si vorrebbe scritto (per dirla con un’espressione di una poesia ultima di Mario Benedetti) con “le parole in posa”; ma è invece il sincero e – a tratti tragicomico, ironico, disperato – tentativo di attraversamento di un nulla che è, prima di tutto, infinita possibilità stilistica.
Sì, la prima cosa che risalta ad una rapida lettura è la grande varietà di soluzioni formali, come è stato già notato (e penso alla come al solito precisa recensione di Roberto Batisti): non solo qualche sparuto testo in versi (?), spaesate isole in un mare orizzontale; ma anche varie e differenti nature della prosa: da quella più narrativa a quella più seriale, con la presenza di diverse tecniche desoggettivizzanti, come il googlism o la riscrittura di un brano metal-prog o di una ricetta, o la trascrizione di una cronologia di ricerca su siti pornografici, che però non escludono virate improvvise su di una prosa diaristica e autofinzionale, anche ad alto tasso di liricità.
Che cosa però tiene insieme un così ampio spettro di soluzioni formali? Ecco, se andiamo alla ricerca della ratio scribendi, della forza propulsiva la cui effusione approda sulla pagina con tutti i suoi diorami, ci ritroviamo davanti ad una delle più antiche e solide fonti di ispirazione della poesia; addirittura la radice più profonda, il fondamento europeo della produzione lirica occidentale: l’Accidia, ovvero il disgusto di sé. Progetto per S. è difatti un piccolo monumento all’Accidia. Ma si badi: monumento nell’accezione etimologica, ciò che deve avvertire dell’arrivo di un pericolo e al contempo ravvisare che lo si è attraversato, almeno quanto basta per ammonire il prossimo. Esattamente questo è uno dei possibili significati dell’esergo biblico con cui entriamo nel volumetto: quod scripsi scripsi, dice un Pilato che è consapevole che non si può più tornare indietro dal proprio essere destinati a sbagliare e che, nondimeno, non si può che ricordare in tutto se stessi il proprio errore: si è come una cicatrice, che fa paura agli altri e a sé quando si appare riflessi nello specchio della scrittura. Certo, dice Burratti riferendosi all’infanzia nella prima poesia, «scriverlo non significa salvarlo», ma «tornare ad avere i suoi occhi per un attimo» (p. 17): il tempo della poesia è a ritroso, à rebours, tempo anadromo e indelebile, questo sguardo sul disastro che è la vita, un disastro inevitabile e nondimeno sempre stato e che la poesia tenta di ripetere nella moviola delle parole. E qui, come si vede, le cose tornano un poco serie. Il gioco delle forme ritrova il suo asse mediano e il libro procede nell’affondo impietoso, di maschera in maschera, secondo il copione più tetro dell’acedia, dell’atra bile. Per capirci: così tanta varietas non è segno di stolida euforia. Per comprenderlo ancora di più, è d’uopo tornare a Petrarca, a quel secondo libro dell’immenso e osceno capolavoro che è il Secretum; e più precisamente alla domanda di Agostino, formulata a bruciapelo più o meno così: «pensi di star male?». Ad essa, risponde subito il poeta: «malissimo». «Per quale motivo?», insiste caparbiamente il Santo; e il poeta: «non per uno, ma infiniti»: uno per ogni poesia, uno per ogni forma letteraria da attraversare. Poco oltre aggiunge una sfumatura al ritratto del malinconico che ben si adatta al libro di Burratti, rovesciandone i termini. Alla domanda di Agostino su perché gli giovi leggere (ma pensiamo di chiedere a Burratti cosa gli giovi scrivere), Petrarca risponde: «in verità moltissimo mentre stavo leggendo: ma una volta che il libro mi è uscito di mano, è subito sparita anche la mia adesione ad esso». Secondo questa indefettibile legge della malinconia, l’accidioso non appena padroneggia una forma, subito ne avverte, da dentro, il vanire, il superfetare nel nulla che al termine della frase esplode; per questo non può che oscillare fra un essere attratto e un dover andare via, «entrare nel mondo, sfuggire al mondo» (p. 18), scampare ad ogni approdo perché se ne vede la putrefazione: giocare nel mondo solo per tenersi occupati e poter non pensare il mondo. Citando proprio le Confessiones, Burratti scrive: «amai la mia rovina, amai la mia caduta: non ciò che per cui cadevo, ma la caduta stessa». E così del passato non rimane che «lo sforzo nel sangue, come la percezione di un arto amputato» (p. 21); e così che moltiplica le maschere con un accanimento compiaciuto e degradante, come il supposto falso personaggio che si cela dietro la misteriosa iniziale S.: a tratti sembra essere la destinataria di una storia d’amore, a tratti no, sembra altro: S., questa iniziale ermafrodita che è sia l’oggetto erotico infinitamente abbandonato, l’Euridice-Fata-un-po’-Mamma, che discende per sempre nelle tenebre, sia il senhal della funzione scrivente e dunque l’ammiccante allusione al supposto autore del libro. Insomma S., nome monco, frammento-guscio, è un avatar: «il vuoto è la sua forza» (p. 49). Come la paronomasia Laura\Lauro\ecc., S. è il semplice asintoto di un desiderio mai raggiunto e così per sempre immobile nella ripetizione sterile dell’identico nelle sue variazioni: «Stanotte mi masturberò\ con lo sguardo fissato al soffitto\ come fanno gli uomini grandi\ prima di compiere opere grandi» (p. 34). Non è un caso che il centro nevralgico e nevrastenico del libro – è stato notato già da Marco Villa – sia la cameretta: la stessa architettonica rappresentazione di uno spazio intimo, «fuori fuoco» e privato dove ci si rifugia dalle intemperie violente del mondo, dalle sue incomprensibili responsabilità e dal problema del legame, dell’adulto rapporto con la realtà che non sappiamo più gestire; lì dove, trovando un «porto», si fugge per lo più ciò che chiamiamo Io: «fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero» scrisse il poeta (Canzoniere, 234); Burratti non fa che trovare nuovi modi per uscirne ma lo fa, ad ogni poesia, ad ogni pagina, con un’ossessività e una convinzione che, al contempo, rivela una radicale aspirazione all’autenticità, come sottolinea giustamente Stefano Dal Bianco nella bellissima prefazione.
Questa posizione ambigua, così tremendamente lirica, così fondamentalmente lirica (un Io che sfugge a se stesso tracimando in maschere, ritrovando così la maschera dell’Io), ma di un lirismo en travesti, che gioca «al gatto col topo» (p. 19) con le ricerche formali, che si orizzontalizza, si appiattisce prosasticamente e che coniuga il compiacimento autodegradante e l’accanito e sapiente svilimento formale fino a rappresentarsi come mera cronologia di una ricerca pornografica, ricorda qualcosa che si era già dato nella nostra letteratura anche in tempi più recenti: porta il nome di crepuscolarismo. E infatti le prose di Burratti hanno molto a che vedere, mutatis mutandis, con alcuni esiti che vanno da Gozzano ad alcune suggestioni delle prose di Svevo e di Tozzi, salvo per il tratto espressionistico che in Burratti non c’è ed è anzi attentamente evitato, sostituito invece da una più leggera vena fantastica, onirica (su tutte la bellissima prosa conclusiva: Astronavi). Se andassimo a rileggere qualche paragrafo da Ricordi di un impiegato del 1920, per esempio, ritroveremmo la stessa aria che si respira in queste di Burratti: un’aria disadorna, fra aspirazioni fallite, dichiarazioni autoironiche che si sustanziano in riflessioni sparse e disordinate che più tentano un’autenticità quanto più si nascondono sotto la vernice narrativa: «ma c’è proprio bisogno che la mia anima prenda quest’arie di scontentezza quasi allegra?», annota il 18 Marzo il protagonista del diario di Tozzi e potremmo rivolgere la stessa domanda al libro di Burratti. E poi ci sono citazioni (ben due) esplicite dalla celeberrima Signorina Felicita di Gozzano, entrambe però totalmente trasfigurate: «e io non voglio più esser io» fa eco a «E io mi dico che non sono più io» (p. 55), ma se nel primo si manifesta una vitalità, nel secondo invece domina un automatismo depressivo; così come «Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina» viene risemantizzato completamente dal fatto che la destinataria non è la giovane e inesperta ragazza di provincia, ma, in un gioco ancora più narcissico, il proprio Laptop: «Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Hp 6730b».
Il crepuscolarismo era l’affermazione di una classe sociale che rivendicava nella sua mascherata debolezza la sua invece forte presenza nella dimensione storica e sociale della Belle Époque. Tale destino come sappiamo si schiantò inesorabilmente contro il muro della prima guerra mondiale che aprì una nuova fase storica e anche una nuova fase poetica: la fioritura della grande stagione di Ungaretti e Montale è infatti marcatamente segnata dall’assorbimento positivo del fallimento del crepuscolarismo. Invece nelle prose e nella poesia di Burratti non c’è nulla di questa affermazione politica: c’è semmai realismo. C’è l’amara constatazione che quella maschera degradante è oggi più sobriamente vera che provocatoria: il degrado feriale insomma non stupisce più e soprattutto non vuole più stupire. Per riprendere le parole del filosofo Baudrillard (Arte della sparizione, 1988) che rovesciano il celebre assunto kantiano, l’epoca di Burratti è quella in cui tutti avvertiamo di vivere con un fine senza finalità e non in una finalità senza fine. È questo il dramma oscuro, il Progetto di cui S. è vittima: avvertire che, in mezzo a tutti questi dispositivi del godimento, abbiamo perso il senso delle nostre azioni e ci dobbiamo arrangiare a trovare una forma di vita, una postura che non potrà non avere una natura paradossale: «Io che sto bene qui ma quando sto qui non sto bene». E nondimeno Burratti ci prova, scaglia quella «noce» che tiene sempre con sé, come una maledizione, «simile al tumore di mio nonno», come dice la voce di Esorcismi, ma nondimeno «in mezzo agli occhi», «un eremo in miniatura»: l’ultima possibilità di una contemplazione, di essere presenti alla propria vita. Ed ecco che il gesto di questo libro sta qui, fra l’infanzia perduta e la scoperta che «i piedi hanno sentito il materasso troppo corto» (True Ending, p. 61). Chi caparbiamente lancia la noce «da dove sono io a dove non posso», alla fine e piano piano, cresce e diventa adulto.
Tommaso Di Dio
Febbraio 2018