«Il resto che non fosti in tempo a dirmi»: sulla figura del padre in Foglio matricolare (da S. Carrai, Il tempo che non muore, Interlinea 2012) – di Guido de Simone
«Il resto che non fosti in tempo a dirmi»:
sulla figura del padre in Foglio matricolare
(da S. Carrai, Il tempo che non muore, Interlinea 2012)
Comprendere le ragioni della scrittura di Stefano Carrai impone di non soffermarsi su La traversata del Gobi (Aragno 2017), recentemente vincitrice del prestigioso premio Viareggio-Repaci; occorre tornare indietro, cercare una risposta tra le pagine de Il tempo che non muore (Interlinea 2012). Le due raccolte possono infatti considerarsi facce della stessa medaglia, cosa che appare evidente già dai titoli. Nella plaquette d’esordio, Carrai sperimenta infatti «la poesia come necessario esercizio di salvezza» ; per converso, ne La traversata lo sguardo del poeta fatica a «tenere insieme / non perdere altri pezzi» . È dunque evidente che Il tempo che non muore costituisce premessa necessaria per l’allegorica traversata del deserto con cui l’autore esemplifica l’esistenza contemporanea: l’atto poetico appare l’unica possibile alternativa, etica e politica, rispetto all’«immenso / ingordo / incessante / ingoiare strati / su strati» che è oggi l’esistere dell’uomo occidentale.
Diviso in sei sezioni tra loro interconnesse, Il tempo che non muore riporta al lettore «frammenti della vita quotidiana slegati dal punto di vista macrotestuale, ma uniti dal sopravalore della memoria» . Spiega Luigi Surdich, nella breve postfazione, che «anche semplicemente scorrendo l’indice delle sezioni e dei titoli dei singoli componimenti» si potrà subito constatare «come gli affetti e i ricordi risultino dominanti» nella poesia del fiorentino, essendo in Carrai la figura dell’altro da sé tutt’altro che un semplice espediente dialogico attorno a cui costruire la lirica. Le poesie di Carrai sono sempre calate nella storia e in un tempo specifico, sempre indirizzate a un ascoltatore a tutto tondo, realmente esistito, e spesso esplicitato dal testo, come ad esempio accade in A ricordo di Renzo e A ricordo di Peppe, scritte rispettivamente per il poeta Renzo Gherardini e il giornalista Giuseppe D’Avanzo.
Un posto di rilievo è riservato alla figura del padre, Giovanni Carrai, il che consente di riconnettere l’opera del poeta a un filone particolarmente fecondo del Novecento. La poesia contemporanea è infatti ossessionata dalla figura del padre, «il Grande Altro, là, fuori» con cui fare i conti dopo la morte di Dio. La crisi del tradizionale sistema di valori ontologici ed epistemologici, fondata sul pensiero dei cosiddetti maestri del sospetto, esacerbata poi dalla rivoluzione sociale e culturale del Sessantotto, determina una nuova centralità della figura genitoriale in tutto lo spettro letterario. Per quanto concerne la prosa, basti citare, a titolo esemplificativo, i casi di Kafka, Svevo e più tardi di Camus. Quanto alla poesia, trovando un fondamento indiscutibile in X Agosto e in Padre, se anche tu non fossi il mio, il padre ritorna nell’opera dei grandi maestri, di generazione in generazione: dalle “corone”, Montale, Ungaretti e Saba, passando per Quasimodo, Luzi e Giudici e fino ai più recenti Viviani, Cucchi e De Angelis.
Sulla scorta dei grandi maestri, Carrai dedica al padre la prima sezione dell’opera, titolata Foglio matricolare. Le dodici poesie che la compongono sono schegge di un passato che spetta al poeta tramandare, con ciò significando un passato altrimenti incomprensibile, quasi che – come spiega Niccolò Scaffai – «il tempo di ieri [venga] adempiuto nell’oggi e nel domani, attraverso la corrispondenza tra le generazioni e l’impegno a conservare un senso, una storia» .
Le dodici liriche di Foglio matricolare, scritte con gli occhi del figlio, sono imperniate sul tema epico del ?????? (nostos), inteso anzitutto come il ritorno del padre dal fronte bellico e, su un piano ulteriore, come il ritorno del poeta al padre tramite il ricordo. Infatti, una lunga serie di oggetti, un tempo appartenuti a Giovanni, fungono impropriamente da correlativi oggettivi, richiamando non già un’emozione, ma un’imago, nel senso dato a questo termine da Carl Gustav Jung, ovvero il ricordo di una persona amata nell’infanzia, ancora in grado di esercitare un’influenza sulla psiche dell’adulto. La fotocopia del foglio matricolare, l’orologio a bilanciere «che ancora funziona» e «che non se ne trova più», «questo mazzetto / di scatti d’Albania» possiedono in Carrai una capacità sconosciuta agli oggetti che popolano il quotidiano. Essi accendono nel poeta uno «sguardo retrorso» che, pur parendo perso in un punto bianco, indaga «l’abbandono lasciato / passando / dalla grande ala del tempo», ritrovando ne «la statua mutilata del giardino» o nel «gabbiano / accovacciato sopra la corrente» i residui del tempo che non sa morire e che irrimediabilmente lascia al mondo, come nell’uomo, cicatrici e simboli densi di significato per chi sa interpretarli. Si coglie qui l’importanza della lezione di Sereni, cui l’autore si richiama esplicitamente con la significativa esergo ad Aria: «la subdola fedeltà delle cose / capaci di resistere oltre una vita d’uomo» .
La lirica d’apertura ruota attorno al ritrovamento del foglio matricolare paterno. Lo stratagemma metrico del verso a gradino, di largo impiego anche nella seconda raccolta del fiorentino, comunica perfettamente di un processo di ricordo complesso e doloroso. Il sangue del padre «in fotocopia / su questo vecchio foglio» riporta alla memoria, come fotogrammi di un vecchio rullino, gli spostamenti di Giovanni Carrai negli anni della seconda guerra mondiale: dall’Etiopia alle Alpi Occidentali e all’Albania, poi la prigionia in Germania e l’amputazione della gamba sinistra.
Nella seconda poesia, l’occasione del ricordo è invece in alcuni «scatti d’Albania», che ritraggono i militi intenti al canto o a marciare nella neve. La lirica appare strutturata in due parti, tanto sul piano metrico quanto su quello semantico. La prima, più compatta e giocata sul respiro veloce del settenario, vive di un silenzio che significa absentia: «nessuno che ti chiami / più caporalmaggiore». Per converso, nella seconda parte della lirica ritorna l’espediente del verso a gradino a segnare il momento esatto in cui dal ricordo si passa all’immaginazione: in questi versi conclusivi, tendenti all’endecasillabo, Carrai immagina «la voce di tenore / confusa in mezzo al coro del plotone». La poesia torna così al suo significato primigenio, quel ??????? che è un creare dal nulla, unico strumento per vivere oggi col padre un rapporto in praesentia.
La terza lirica della sezione porta il lettore nel vivo dello scontro bellico, senza nascondere le contraddizioni del conflitto. «Ne valeva la pena / ti chiedesti / questa terra di serpi?» Questa domanda, messa in bocca al padre, sanguinante e ferito a un braccio da un proiettile, trova forse una risposta nella solidarietà di «un geniere [che] ti prese a cavalluccio / tra gli spari / ti portò fuori tiro». Un compagno d’armi testimonia dunque di una tensione eroica che non si esplica nel gesto straordinario, ma nella semplice rimozione dell’elmetto a un soldato, perché questi torni a essere uomo. La salvezza nei versi di Carrai non viene dunque dall’alto, ma dall’«acqua fangosa», portata nel concavo dell’elmo, offerta al padre dal suo commilitone per alleviarne l’arsione.
Carrai immagina poi cosa possa essere accaduto al padre all’indomani del proclama Badoglio dell’8 settembre 1943, con cui il capo del nuovo governo italiano annuncia l’armistizio tra forze italiane e anglo-americane, «riconosc[endo] l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria [e] nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione». All’aeroporto di Tirana, «con il braccio al collo», «aspett[ando] di partire in licenza», Giovanni vede «d’un tratto / i carri di traverso sulla pista / e l’apparecchio che spenge i motori», il feldwebel che entra nella carlinga «ringhiando / traditori» agli uomini che fino a poche ore addietro erano stati alleati, additandoli come «Italiener Scheisser», italiani di merda. Un terribile interrogativo chiude il testo: «e poi vi caricarono / sul vagone piombato?»
L’immaginazione occupa per intero anche la lirica successiva, che recupera alla memoria il lungo viaggio in treno e l’arrivo alla baracca del campo, il morso della fame e lo squallido, disumano rancio: poco più che «un secchio di bucce di patata». All’inizio del sesto verso, in posizione enfatica ed emblematicamente al centro della lirica, la congiunzione avversativa “ma”, vero e proprio fulcro della bilancia, spartiacque tra tutto il male del mondo e il coraggio di «giocare a carte lì accanto alla branda / in cui uno di voi stava morendo […] / ogni tanto voltandosi a guardare».
Alla spersonalizzazione, alla reificazione, cui i tedeschi costringono i detenuti del campo, Giovanni Carrai non vuole arrendersi. Alla domanda che apre la sesta poesia, «ma nel buio eravate ancora voi? / o solo / ormai / un numero gridato?», il poeta contrappone infatti una certezza, disegnando ancora una volta una netta bipartizione nel testo, in equilibrio precario tra immaginazione e testimonianza: «so che sognasti un varco / oltre il reticolato / so che / sotto la pioggia / notturna delle bombe / le tue gambe spiccarono la corsa». La fuga dal campo non dura, tuttavia, che pochi istanti: la lirica successiva tratteggia il momento del ritrovamento di Giovanni da parte delle forze alleate. L’uomo, gravemente ferito alla gamba sinistra e ormai quasi dissanguato, viene riportato nel campo, riposto su un tavolo dell’infermeria: non resta che amputare l’arto per salvare la vita del soldato, ma il poeta non può non chiedersi «quanto avrà fatto effetto / lo schnaps [bevanda alcolica] contro il segare / del chirurgo sull’osso?»
Rimpatriato nella lirica ottava, Giovanni impara a camminare con la gamba di legno nella ritrovata “normalità” del dopoguerra. Segue quella che è, senza dubbio, la più bella poesia della sezione, tutta giocata sulla coppia opposizionale padre-figlio. «Mi guardavi giocare / con l’elmetto di plastica / il mitra tra le mani»: così esordisce Carrai, raccontando con toccante rimorso di una colpa innocente, di un bambino che ancora non capisce e che guarda al mondo con una logica dicotomica: «io chiedevo se avevano / più colpa i bombardieri americani / o i guardiani tedeschi / tu non rispondevi». Colpisce, in chiusa, l’amore di cui è capace Giovanni, nonostante gli orrori visti negli anni della guerra; stride rispetto al gergo militare finora adottato il richiamo alla normalità degli ultimi versi: «e mi accompagnavi / a ritirare il pacco / dono / alla befana del mutilato». La parola “dono”, un versicolo di ungarettiana memoria che sa ritagliarsi uno spazio tutto suo nelle pagine della raccolta, in così evidente contrasto con i brevi versi su cui era stata costruita la prima lirica della sezione: «Germania», «prigionia», «amputazione», et similia.
La decima e undicesima lirica sono occupate dalle riflessioni di un uomo già maturo. A fungere da correlativo oggettivo per il primo testo è un libro di Rigoni: esso richiama alla memoria i racconti del padre, che per il giovane Carrai «erano un po’ l’Iliade / un po’ Le mie prigioni», dunque una narrazione a metà strada tra l’epica e la memorialistica. L’imperfetto incipitario esprime il rimorso di non aver compreso per tempo la complessità della storia e degli accadimenti toccati in sorte al padre, di non aver potuto essere partecipe del suo dolore negli anni del dopoguerra, di essere stato poi ottenebrato dalla superbia rivoluzionaria che arma le nuove generazioni contro le vecchie: «Pensavo che la mia generazione / avesse poco o nulla da imparare / dalla vostra / pensavo / sì / non è stato fascista / però / nemmeno è stato contro».
La penultima poesia della sezione è invece scritta durante una visita a Primostèn: nella cittadina croata, dove pure il padre non è mai stato, sono «le date sulle lapidi / e quell’ostilità dei camerieri» a indurre alla riflessione. Tuttavia, il ricordo commosso del poeta entra in contrasto con le «frotte di turisti», le tavole imbandite dei ristoranti e i «fritti misti», secondo un atteggiamento che ritornerà poi nella raccolta successiva e in particolare in Paszkowski, una mattina, dove si legge: «mi sento il solo ingenuo / a cui vengono in mente / idee come / peccato che i luoghi / non possano parlare / non dicano la storia».
Nella lirica che suggella la sezione, Carrai commemora infine la morte del padre. La prima parte del testo descrive un epilogo triste, che con sé trascina non solo un uomo, ma tutta la Storia, negando dunque la funzione salvifica della testimonianza e del ricordo: «il resto che non fosti in tempo a dirmi», lo splendido endecasillabo che apre al rimorso «oppure / preso al laccio / dalla mia gioventù / fui io a non farci caso». Eppure, bastano i tre versi conclusivi (introdotti da un’altra avversativa) a ribaltare tutto, restituendo alla Poesia il proprio ruolo: «ma trent’anni di buio / non bastano a mutarti / in una specie di milite ignoto».
Così conclude Foglio matricolare, rivisitando uno dei temi nodali del Novecento. La narrazione di Carrai ha, tuttavia, qualcosa di particolare: essa si colloca a metà strada tra la lirica propriamente detta e l’epica, «riportando – scrive Comparini – all’interno di una dimensione ora individuale, ora universale, forme autonome dell’esistenza» . In altri termini, gli accadimenti di Giovanni travalicano le vicende del singolo e assurgono a simbolo universale del dolore e dell’insensatezza di quegli anni di guerra. La figura del padre ne emerge come un eroe ulisside nella sua lucida comprensione del male (i.e. lirica nona), più volte frustrato nel suo ritorno a casa (dapprima nella lirica quarta, poi ancora nella settima): non è dunque un caso che Foglio matricolare si articoli in dodici testi, numero che rimanda all’epos omerico e virgiliano.
D’altronde, anche la «fitta rete di rimandi e citazioni testuali» con cui Carrai «si fa carico della storia ed assimila […] le suggestioni dei poeti più amati e studiati», da Bonnefoy a Joyce, da Celan a Rigoni Stern, da Ovidio a Saba, Sereni e Montale , non deve considerarsi mero espediente retorico. Spiega Niccolò Scaffai che «la presenza (costante, a volte perfino ingombrante) della letteratura nei versi di Carrai non è esibizione colta del poeta-professore, ma forma del tempo interiore che trova nella citazione e nell’allusione uno strumento di condivisione» . I richiami letterari, talvolta espliciti, talvolta sottilmente allusi, assolvono dunque a una funzione essenziale: rappresentano il nesso indispensabile a traslare la memoria individuale su un piano ulteriore e collettivo.
Il rimando letterario e il ricordo affettuoso dei cari scomparsi si ammantano in Carrai di una veste ulteriore, di probabile ascendenza fortiniana, cosa che appare ancor più evidente ne La traversata del Gobi. Benché l’autore stesso mascheri questa sua tendenza, scrivendo di sé come di «un poeta neocrepuscolare» , una lettura attenta non potrà non rilevare una significazione politica nella scrittura di Carrai, distinguendo il fiorentino dai versificatori suoi contemporanei. Infatti, la poesia cosiddetta postrema, o postcontemporanea, «sente un distacco apparentemente irrimediabile rispetto alla tradizione precedente [e] considera la scrittura un fatto privato e svincolato da qualsiasi sguardo collettivo»: basti pensare a quanto scrive De Angelis in Lo stato conferito, dove si legge che «servo e padrone lottano calmi / nel sacco di cellofan». La posizione del milanese non copre certamente tutto lo spettro della poesia odierna, ma indica una tendenza in larga parte condivisa, complice quel fascismo dei consumi di pasoliniana memoria capace di imporre all’uomo tardo-novecentesco un ritorno al privato.
Quella di Carrai è invece una poesia di resistenza. Perfino la straziante commemorazione del padre in Foglio matricolare non è mera versificazione di una diaristica; contiene in sé un universale: può considerarsi una forma moderna di pietas. L’assenza di virgole lungo tutta la sezione, quasi che il poeta non sappia prendere respiro nella sua narrazione, testimonia di una convulsione che accomuna Carrai a Enea in fuga col padre da Ilio. D’altronde, se è vero che de facto è un commilitone a prendere «a cavalluccio / tra gli spari» Giovanni e a trarlo fuori tiro, è pur vero che con questi versi il poeta ha traghettato la memoria del genitore fuori dall’oscurità di quegli anni. La scomparsa del padre nella poesia conclusiva non è dunque una vera separazione, ma la premessa per un eterno ritorno, perché questa suite di testi pare voler ripetere una verità antica: «ergo age, pater, cervici imponere nostrae; / ipse subito umeris, nec me labor iste gravabit» .
Guido De Simone
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Ne valeva la pena ti chiedesti questa terra di serpi? Sanguinavi un geniere ti prese a cavalluccio tra gli spari ti portò fuori tiro ti tolse l’elmetto per alleviarti l’arsione lo riempì di acqua fangosa
te lo porse alle labbra.
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Mi guardavi giocare con l’elmetto di plastica il mitra tra le mani
ma quante volte avrai rivisto le torrette e le sentinelle il filo spinato? Io chiedevo se avevano più colpa i bombardieri americani o i guardiani tedeschi
tu non rispondevi e mi accompagnavi a ritirare il pacco dono alla Befana del mutilato.
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E da ultimo dovesti arrenderti alla morte
uscita di sorpresa allo scoperto che ti portò via col lamento di Federico il brindisi di Alfredo e di Violetta il bordello da campo le baracche del lager e la scelta fra tornare in Italia con i repubblichini o rimanere lì schiavo della Todt
il resto che non fosti in tempo a dirmi oppure preso al laccio dalla mia gioventù
fui io a non farci caso.
Ma trent’anni di buio non bastano a mutarti
in una specie di milite ignoto.
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