Multiverso, Carlo Di Legge (Puntoacapo, 2018)
Un viaggio infinito nell’indefinito
Nota di lettura di Eleonora Rimolo
“Multiverso” di Carlo Di Legge (Puntoacapo, 2018) è il libro delle possibilità corrotte: oggetti, luoghi e situazioni parallele (sebbene, spesso, non compiute) si aggrappano alla barriera di un universo infinito, in espansione, forse addirittura plurale, dove – si capisce – ogni tentativo di ricercare le coordinate spaziotemporali è destinato a fallire. Tuttavia, ad indicarci un possibile percorso è il sottotitolo del volume: “di quel colore che soccorre, a volte”. Sono la poesia e la sua forza figurativa a proporre una gradazione alla realtà, una corrente da cui lasciarsi trasportare fin dentro un microcosmo tutto privato e tutto generale allo stesso tempo. Il primo testo è una sentenza che non lascia, infatti, spazio a possibilità di fraintendimenti o di altre interpretazioni: “Quello che siamo e che saremo sempre / può bastare, anzi è tutto quello che serve”. La caustica presa di coscienza di una presenza, immutabile nel suo riuscire a colmare i vuoti inevitabili lasciati dalla distanza tra un soggetto e l’altro, apre la strada ad una serie di liriche in cui emerge una forza decisa, perentoria: “chi ancora deve venire, verrà, / chi deve, ci sarà, / chi non potrà venire non verrà”. È un’evidenza raggiunta al termine di un percorso di solitudine pensata, sofferta, che non si vede ma si ascolta, e che impalpabile giunge alle orecchie di ciascun avventore (“Rallenta il passo, viaggiatore: / si vede poco: / piuttosto, ascolta l’eco”) suggerendogli soluzioni impossibili alla sciarada della vita. Quello che recepisce le voci, i lampi, le visioni è un Io incerto, perduto nel suo opposto, alle prese con l’eterno paradosso di se stesso (“paradosso dell’essere che sono / come se, pur essendoci, non fossi): ogni figura è passaggio temporaneo, evanescenza, dimostrazione pratica che tutto muta, termina, scompare – infine (“Essere qui, nel punto dei passaggi, / è vedere te stesso, e gli uomini, / come nuvole sospinte e scompigliate dal vento”). Dentro le settimane che trascorrono tutte uguali per ciascuno talvolta appare un presagio, cambiano le sensazioni, si diventa cupi e poi sollevati, e di nuovo tristi: c’è un valore centrale attorno a cui dovrebbe girare l’esistenza? Forse l’effimera quotidianità riuscirebbe a darci delle risposte sufficienti a sopportare il giorno dopo giorno e le sue imperfezioni costanti? Così risponde il poeta: “Forse nella prova / apprendiamo il valore del vivere. / Ma è stata una strana settimana questa. / Mi sono sentito teso, senza motivo: forse la primavera, / o presagi di cose che non so?”. È l’entrare di diritto in un gioco circolare che dall’individuale – attraverso la poesia – diventa universale: un apprendimento “a perdere” (“Togli piuttosto che aggiungere”) perché solo attraverso l’esercizio della sottrazione si può mettere in salvo quel che resta dopo l’amore cannibale (“Tu con l’amore senza fine / cui non sembra che risponda amore / semina il poco”). Ma, se le stagioni della natura sono costrette ad un eterno ritorno, quelle della vita arrestano prima o poi la loro corsa: calerà dunque un’unica definitiva sera su tutte le cose terrene, sul nostro esserci stati, nell’indifferenza quasi generale, e sul nostro strozzato desiderio di rimanere per condividere – spezzandolo – quel nulla che ci tratteggia e ci circonda (“Se verrà sera, come dici, / sarai la mia sera”). Rimarrà della polvere cosmica, forse, e una teoria non dimostrata sulla mancanza di confini: probabilmente anche l’universo si spegnerà quando tutte le stelle avranno esaurito la loro energia. Non potremo – in ogni caso – saperlo, e al poeta spetta il compito non banale di ordinare in versi quei fenomeni che, tra i molti mondi abitabili, ci siamo ritrovati a dover incontrare e ad interpretare: ciò che è certo, infine, è che “noi siamo […] / innesti riusciti, / significati” e per questo dobbiamo provare ad “ingoiare” il deserto con quella poesia “che soccorre, a volte”.