Nicola Vitale, Chilometri da casa (Mondadori, 2017) – Lettura di Eleonora Rimolo

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Nicola Vitale, Chilometri da casa (Mondadori, 2017)

Partire, arrivare, tornare.
Lettura di Eleonora Rimolo

L’indagine che Nicola Vitale compie in Chilometri da casa (Mondadori, 2017) si proietta in direzioni diverse, plurali, spesso opposte – e pertanto affascinanti: quanti sono i chilometri che ci separano da ciò che chiamiamo casa? Per quale motivo ce ne siamo allontanati? Abbiamo la possibilità di scegliere se e quando tornarvi? Una cosa sola è certa, e cioè che la strada che conduce il lettore verso questa misteriosa dimora è lastricata da versi potenti, evocativi, ma nello stesso tempo lineari, acuti, diretti. Chi si mette in cammino è l’uomo, un Sé che Vitale avverte come un peso (“Cosa costringe un ragazzo/a questo essere così poco,/obbligato a un lavoro immane/per sopportare se stesso?”) e che riconosce come solitudine assoluta (“poi scopri che nessuno ascolta”): è il paradigma del flâneur contemporaneo, perennemente perduto dietro ad una meta che non esiste e che egli stesso non riconosce, perché cresciuto all’addiaccio. Non c’è speranza di salvezza (“Aspettarsi di tutto lascia libero il campo/dalle pretese di salvezza”): è il “perduto – polveroso prato” eliottiano che qui viene esplorato con gli occhi di chi non riesce a guardare né a guardarsi, privo di ogni coordinata sul presente, sul futuro ed anche sul passato. Un’atmosfera di immobilità cocente percorre i testi, densi di immagini pittoriche e musicali che però non profetizzano, non curano, perché “la bellezza non ci rasserena/ma ci riporta a un unico scopo/quando non credevamo/di dover scegliere tra questo e quello”. E nel limbo di chi non è riuscito a superare il bivio ma è rimasto sulla soglia c’è spazio solo per una multiforme nostalgia (“la parola nostalgia/sostantivo femminile/con illimitate possibilità di essere altro”) che, alla maniera della saudade pessoana e più in generale portoghese, attanaglia lo spirito e il passo del viaggiatore smarrito e desideroso di tornare alla propria casa. Non è un Ulisse moderno ma un Re Sebastiano che non raggiungerà mai più né la tomba né la reggia: in qualunque modo si parta, d’altronde, per Vitale non è per forza un bene mettersi in viaggio (“non sempre partire produce un beneficio/conduce ad una meta”). Che fare, dunque, quando ci si accorge di aver smarrito il sentiero maestro, quando le stanze accoglienti di una vita qualsiasi – che però è la nostra e di nessun altro – ci appaiono lontane centinaia di chilometri da noi? Come risolvere dentro noi stessi quella sensazione di panico, quel pentimento per non essere rimasti quando ce n’era bisogno? Tutto appare in ritardo: aver rimandato le scelte non ha fermato il tempo, non ha convinto l’amore a rimanerci accanto (“io capovolto e speculare/in preda a una natura insidiosa vorrei /i punti /poi faccio progetti di vecchiaia./Non ne veniamo a capo […]”), eppure il poeta non ha in questa sede risposte sufficienti né credibili a tali interrogativi; i suoi testi denunciano soltanto “le faccende del mondo che rotolano”, gli “scivoloni nel buio”, portano la testimonianza asettica di tutte le “occasioni mancate” e dei “pentimenti affrettati”. Sono, dunque, questi brandelli di esistenza, questi banali gesti del vivere, queste miserie quotidiane ad accadere, a riempire gli intervalli tra una sosta e l’altra, mentre procediamo calpestando la terra in preda all’ansia del traguardo, tentando di calcolare la distanza che ci separa dal rifugio prediletto, il quale non sempre corrisponde ad un luogo fisico raggiungibile ma che da sempre alberga nell’animo di ogni viaggiatore. “Non impariamo da segni efficaci di fragilità” ad imboccare il sentiero giusto, ma – direbbe Celan in Lode della distanza – “ci separiamo avvinti” e in tal maniera spendiamo il tempo senza avere “più la pretesa di parlare tante lingue, di essere pronti per il mondo” accorgendoci, forse, che la sola grande casa è quella che abitiamo tutti nello stesso momento, anche se divisi da chilometri impercorribili, da muraglie altissime. Alla poesia è dato il compito di coprire gli spazi larghi, di perforare la pietra, di trovare infine ristoro – e arrivo – nel punto esatto da cui siamo partiti con il desiderio di evadere: “Mi affaccio: – in vista è la vita al bar dell’angolo”, e chiarissime in tal modo appaiono tutte le cose, anche le ombre più nere, che altro non sono che un gioco maldestro della luce.