Tiziano Scarpa
(Anteprima editoriale di Le nuvole e i soldi)
Le parole di Tiziano Scarpa per Atelier Poesia:
Scrivo poesie da quando ho quindici anni. Rileggo la frase precedente e l’errore mi salta agli occhi: avrei dovuto scrivere “da quando avevo quindici anni”, ovviamente. Da questo lapsus potrei ricavare che scrivere poesie sia un modo per continuare ad avere quindici anni: cioè per restare fedeli a quel primo incontro con il desiderio di morire; per sostare dentro quel desiderio, che per me finora è stato il modo – più efficace?, più credibile?, più decoroso? di resistere alla morte. Scrivo poesie per continuare a illudermi di avere quindici anni, per contrastare la morte opponendole il mio desiderio di morire.
Durante il liceo e nei primi anni dell’università, la forma “raccolta di poesie” per me era qualcosa di più di un semplice contenitore. Era qualcosa che, per tre mesi, o sei mesi, o un anno, mi serviva a dare una tonalità a ciò che ero, a ciò che stavo vivendo. Ogni raccolta di poesie segnava una fase della mia vita completamente diversa da quelle precedenti, le forniva un colore omogeneo, un sapore prevalente. Ognuna scaturiva da un cambio di poetica, il che significava non solo un modo diverso di scrivere, ma soprattutto un modo nuovo di sentire la mia presenza nel mondo.
Dopo i vent’anni ho cominciato a scrivere racconti, e poi romanzi. Era un altro modo di stare dentro le parole: alla fiammata e all’intuizione si aggiungevano la progettualità, la continuità, la disciplina, le rielaborazioni minuziose, le infinite revisioni. Con i racconti e i romanzi cambiavano anche le prestazioni che chiedevo alle parole: meno spessore fonosimbolico, meno fiducia nell’enigma, minore delega all’ambiguità; più attenzione alla capacità delle parole di far immaginare a occhi aperti. In gioventù ho avuto fortuna con gli editori che hanno letto i miei primi racconti e romanzi. Ma che cosa sarebbe successo se mi avessero pubblicato prima quelli a cui avevo spedito le mie poesie? Che piega avrebbe preso il mio percorso? Che autore sarei adesso?
Prima che l’operazione alla gola gli togliesse la parola di bocca, mio
padre l’ha sempre detto che sono figlio di un aumento di stipendio.
Se la riconsidero adesso, noto che:
1. prende la rincorsa con due sghembi simil-endecasillabi,
2. spicca un salto con un altrettanto zoppicante ottonario,
3. infine dilaga in qualcosa di più disteso, più prosastico, meno descrivibile metricamente:
- Prìma che l’operaziòne alla gòla
gli togliésse la paròla di bòcca, - mio pàdre l’ha sèmpre détto
- che sono fìglio di un auménto di stipèndio.
Da allora ho continuato a scrivere racconti e romanzi e testi teatrali, come si convive in casa con una sposa amatissima. E ho scritto poesie come si apre la porta a una sorella intransigente, assoluta, che se ne va per il mondo, non dà notizie di sé, sparisce, ma non per questo smette di essere la tua parente più intima, e all’improvviso ritorna per soggiorni sconvolgenti, si rifà viva senza annunciarsi, ti rovescia la casa, reclama affondi crudeli, incestuosi.
Fotografia proprietà di R. Persian.