Paolo Polvani è nato nel 1951 a Barletta, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Nuvole balene, ediz. Antico mercato saraceno, Treviso 1998; La via del pane, ediz.Oceano, Sanremo 1999; Alfabeto delle pietre, ediz. La fenice, Senigallia, 1999; Trasporti urbani, ediz. Altrimedia, Matera 2006; Compagni di viaggio, ediz. Fonema, Perugia 2009; Gli anni delle donne, e-book, edizioni del Calatino, 2012; Un inventario della luce, ediz. Helicon 2013; Cucine abitabili, Mreditori, 2014; Una fame chiara, edizioni Terra d’ulivi, 2014; Il crollo di via Canosa, e-book La Recherche; Il mondo come un clamoroso errore, Pietre vive editore 2017. E’ tra i fondatori e redattori della rivista on line Versante Rripido. Paolo Polvani
Tre inediti
San Giuseppe da Copertino salva un migrante in procinto di annegare sollevandolo in volo
Io sono Abdelaziz, quello del mare che inghiotte, Abdel
in bilico sul bordo della barca, sul bordo
dei sogni, quello del cielo azzurro e della notte
che avanza strisciando, della barca che si rovescia nel buio
e spalanca l’alfabeto sonoro del terrore.
Abdelaziz del freddo che assorbe, della imperscrutabilità dei pesci,
dell’acqua che diventa uno scintillio di voci, di grida,
fanfara dolorosa di destini senza più nome.
Abdelaziz che ha conosciuto il privilegio di una mano che l’afferra,
l’ha scaraventato nell’inchiostro del cielo, su su, ha volato
come un uccello senz’ali, Abdel che tremava nell’aria,
che ha sentito la terra, è caduto, ha visto in faccia
quell’uomo, si è specchiato nella sintassi di rughe,
nella fronte da contadino, Io Abdelaziz, da Wajid, Io
Giuseppe, ha detto soltanto, vengo da Copertino.
Abdelaziz in piedi sulla barca. Gli è stato rivelato
che morire non è solo un’ipotesi, una parentesi chiusa,
un’equazione, una faccenda trascurabile.
Abdelaziz che ha volato nell’aria, le stelle affacciate.
Abdelaziz che Giuseppe afferra col braccio da contadino,
Giuseppe di poche parole, sparito nel buio.
Io sono Abdelaziz, quello della barca, del mare che inghiotte.
*
Sant’Eupremio salva muratore precipitato dalle impalcature
Certi voli sono uno sperpero di gesti, d’inconsulto
aggrapparsi, come se potesse salvarti un frammento dell’infanzia,
o i cerchi concentrici che apre il tuffo di un ricordo. Precipitare
dalle impalcature è una faccenda di karma, è la legge
della gravitazione universale, e in basso, in attesa del tonfo, una colonia
di gatti si contende il primato sui bidoni dei rifiuti.
In alto, nell’azzurro profondo, s’insinua con morbida destrezza
la leggerezza di una nuvola, il disinteresse metallico della gru.
L’aveva cucito sulla pelle il nome, custodito nella tasca
posteriore dei pantaloni. Non è dato sapere se ne indossasse
uno di tipo vetero proletario, per esempio Gaetano,
oppure conforme all’era nuova, Ahmed,
o Kevin. Il mondo pervicacemente s’aggrappa a una totale
inconsapevolezza. Prestabilito è il contorno
di raccapriccio e di grida. Si nascondeva nel vento il santo,
veniva dall’aria col suo cappello dal sapore di foresta.
Quel santo chiamato Eupremio aveva nel cuore i muratori,
avvezzo alle impalcature e alle vertigini. Gli basta una sola mano
e il muratore rimane immobile nell’aria. Adesso tutto è pronto
per infilarsi in qualche indigesta agiografia. Anche i giornali
riscaldano il clamore dei titoli sul santo sconosciuto, perduto
in un medioevo di polvere, con l’anacronismo del nome, con la sparizione
subitanea, eccesso di timidezza, fulminea come uno starnuto.
Ma come ha fatto ? voi l’avete visto, l’avete visto voi, diteci come ha fatto.
*
Il miracolo del kebab
Si può addentare la cipolla e una sequenza di stagioni,
se sei seduto solo all’Isola del Kebab e mastichi
una cittadina del nord spalancata sulla cartolina
di un mare azzurro, se mastichi la tristezza
che si annida nel ricordo di un cortile
affogato nella ripicca dell’estate, e deglutisci rimpianto e piazze
nella vibrazione assolata del mezzogiorno e un tuono
lento e muto rotola e di fuori il grugnire del traffico
ti fa dono di un piccolo disprezzo. Mastichi solo, e in quella
solitudine si affaccia il muso di un gatto, si affaccia
il vecchio muso di una donna. Una solitudine che parla,
ti prende il cuore tra le mani e lo scaraventa per terra.
Può accadere così che santa Edvige faccia apparire
la danzatrice col tuo stesso dialetto sulla bocca,
le tue stesse parole da bambino, la stessa
musica che ti fece da cuscino, da ombra, da riparo.
Ora non mastichi più kebab, rimpianto e solitudine, ma
la ruota di quella pancia bianca, la farina di una patria, e tutta
una notte di discorsi, di vicoli odorosi di minestra, di tramonti,
di cielo, di parole, di pelle che sa scrivere un poema.
Fotografia di proprietà dell’autore.