Fabrizio Dall’Aglio – “Le allegre carte” (lettura di Alessio Alessandrini)
CONSIDERAZIONI SU “LE ALLEGRE CARTE” DI FABRIZIO DALL’AGLIO lettura di Alessio Alessandrini
Il nuovo libro di Fabrizio Dall’Aglio nasce da una primissima contraddizione, (le contraddizioni sono care al poeta reggiano e caratterizzano il suo verseggiare come fossero dichiarazioni poetiche; ne è un esempio lampante il testo aforistico inserito nella raccolta alla pag. 8 intitolato, CONTRADDIZIONI E SISTEMA e che suona così: Non sono le contraddizioni che distruggono il sistema (Hegel lo aveva capito). Sono le fondamenta.), ovvero quella di essere una raccolta tanto giovane quanto vetusta se, ce lo conferma in nota lo stesso autore, i testi che la compongono hanno più di venti anni ,( risalgono al periodo che va dal 1984 al 1995), e sono postume, per così dire, nel momento stesso in cui vengono alla luce, fedeli a quanto postulato dallo stesso Dall’Aglio in un altro dei suoi folgoranti aforismi:
PRESENTE COME PASSATO
Si deve sempre diffidare di ciò che è contemporaneo, nel concetto di presente è già insita la sua stessa sopravvalutazione. Vedere il proprio presente, e noi con lui, come già passati, è il primo sintomo di intelligenza critica. (pag. 34)
Eppure questa raccolta longeva sembra aver usufruito dei benefici che si garantiscono ai vini e agli amari quando si dice che diventino preziosi e squisiti col passare del tempo. Se, infatti, il lettore pensa di trovarsi di fronte a un testo anacronistico e stanco, si sbaglia grossolanamente perché, a differenza di tante sillogi in stampa oggi, questa di Fabrizio Dall’Aglio si segnala per verve lirica, audacia, leggerezza compositiva, originalità, in una freschezza della scrittura che è ben piantata nell’ hic et nunc e che rende questi testi quasi dei piccoli vaticini.
La poesia di Fabrizio Dell’Aglio non è facile, tutt’altro, e “l’alto tasso di leggibilità” dichiarato in bandella da Paolo Maccari non deve essere inteso come sinonimo di semplicità. Si tratta, sì, di una produzione dall’impianto denotativo lineare, che strizza l’occhio in molti casi alla poesia ludica e alla filastrocca – si leggano i musicalissimi testi della sezione intitolata Rime di Isidoro Cordeviola – ma lo fa con una carica innovativa ed evocativa, allo stesso tempo, con una dimensione divergente e spiazzante, che raramente ritroviamo nel panorama lirico contemporaneo. Si diceva di questa complessità che si evince primariamente dalla perfetta e caleidoscopica struttura macrotestuale: dalla riflessione ironica all’aforisma, dalla prosa sabiana al certame poetico, dalla canzone all’acrostico viene intessuta una trama in cui si rincorrono gioiosamente e giocosamente tematiche e atmosfere in un crescendo di rimandi tale da fortificare un libro che, altrimenti, avrebbe potuto difettare per mancanza di unità.
La ratio compositiva, invece, è ancora una volta stupefacente e perfetta – come avviene in tutte le prove poetiche del Nostro – da pareggiare in stile e riuscita certe impaginazioni caproniane, altro maestro dall’arguzia intellettiva, altro mirabile artefice dell’intertestualità.
Nulla è lasciato al caso, nulla appare inappropriato nella sua sequenzialità, di quello che si canta, rima o prosa o stiletto. Quanto detto può essere facilmente confermato dalla struttura circolare dell’opera se si confronta la prima prosa poetica intitolata “IO” a pagina 9 con la canzone conclusiva, “La Saga“, alla pag. 72 che termina con la seguente e illuminante quartina:
E all’ultimo momento sarò pronto a perorare la mia causa a Dio: se si presenterà a chieder conto io gli risponderò <<Piacere, io>>.
L’io poetante di Fabrizio Dell’Aglio non ha nulla dell’ombelicale e intimistico Io narciso dolente di tanta lirica contemporanea, semmai è un io piccolo piccolo che tende a sparire, a sdoppiarsi in un altro da sé più o meno invisibile, più o meno nominabile, codificabile:
(…)
O erano distanti, molto distanti fra loro, ecco, sì, su strade diverse, di città diverse, paesi diversi, non si erano mai visti né conosciuti, non era neppure la stessa ora, quella …
E magari ce n’era uno solo, senza l’altro, ed era senza cappello, e forse ero io, proprio io. (IO, pag. 9)
Il tema della sparizione così come quello dello sdoppiamento li ritroviamo, infatti, in molti passaggi de Le Allegre Carte non ultima nella scelta di firmare tutta la seconda parte della raccolta con uno pseudonimo: Isidoro Cordeviola. Il testo iniziale (alla pagina 7), d’altronde, risulta programmatico e avvisa il lettore già di molti degli aspetti che contraddistingueranno l’opera nella sua completezza:
La vita gioca a sponde e ora rimbalza da un punto all’altro di questa mia stanza. Ascolto la mia voce che mi parla e un’altra voce dentro che risponde. Benvenuto, poeta il giorno è chiuso (…)
Questi richiami, rimbalzi nella stanza del poeta si perpetuano in diverse eco creando una sinfonia di “voci” plurali che si inseguono in maniera mirabile e ben congegnata. C’è il tema del gioco, dichiarato in precedenza, che si estende nel libro insieme ai suoi temi gemelli: l’azzardo, la magia, la falsificazione, la finzione (teatrale e filmica). Si leggano esemplarmente i testi alle pag. 11, 17, 19, 23, 29.
C’è il tema del doppio e della distonia tra la mia voce e l’altra, tematica che caratterizza la sezione finale ma anche testi precedenti come quello di pag.25 :
Generica figura, la mia natura mi volle duplice. (pag. 25)
C’è, infine, il riferimento metatestuale al mondo della poesia e alla figura, (o meglio sarebbe dire: controfigura), del poeta (io poeta?), un tema dominante che si distende dalla prima all’ultima pagina ma che si fa prevalente nella sezione delle Rime in cui va in scena la schermaglia poetica tra Isidoro Cordeviola e Ascanio Bino Vallelunga e dove Dall’Aglio drappeggia in modo ironico il funereo mondo del poeta contemporaneo.
In maniera scherzosa e ludica, velatamente malinconica, il racconto de Le Allegre Carte narra le vicende di un io poetante in declino, spezzato e spiazzato, svogliato e incompreso, vaniloquente e baciapile, lillipuziano e in odor di morte, o comunque smarrito, in via di estinzione:
(…) Onora il mio destino di cantore Rinchiuso come perla in una cozza, Da vate a consigliere correttore, Effimero guardiano della bozza. Vivo ormai con distacco un tale scempio. Io che ho rubato al sonno la mia lira Offro or le terga da immolare nel tempio Lillipuziano di Madonna Lira: Avanti che c’è posto, ciak, si gira … (PROLOGO, Acrostico del poeta -redattore, pag. 47);
Che resteremo sempre nascituri, Ai blocchi di partenza perché inetti? No, non posso invidiare l’altra sorte, Il trionfale tripudio della specie. Onore a noi, ed alla nostra morte (I, pag 49);
Oggi mi sento ancora un po’ più vile, Rubacuori o poeta per diletto, Ossimoro vivente, baciapile, Approssimato al mondo per difetto. (III, pag. 53).
Nel teatro artificioso e vano del mondo letterario di oggi dove si è alla ricerca di un pubblico come si è alla ricerca di sé – illuminante l’aforisma ALLA RICERCA DI UN PUBBLICO “Si esibiva in affollati lughi comuni” (pag 16) – il poeta non solo ha perduto il suo lustro di vate ma si è così assottigliato da divenire un fantasma, un’anima dolente e penitente senza requie nel buio come un sonnambulo.
Sonnambulo, sì, un accostamento da ritenersi azzeccato se molta della scrittura di Fabrizio Dall’Aglio si muove in zone di frontiera tra il sonno e il sogno, (parola che ritorna in maniera ossessiva in tutta la raccolta), tra la veglia e la sveglia, (che è sempre traumatico ritorno alla realtà, al disincanto: quando poi mi svegliai, / se n’era già andato / – lui – / all’altro mondo, pag. 25).
In un gioco (c.d.v.) di accadimenti e negazioni – annegamenti – in cui trovarsi e perdersi, esserci o scomparire, vivere o morire è inequivocabilmente la medesima cosa, stessa scena, (fittizia scena da film o palcoscenico), stesso azzardo, stessa scommessa, stessa faccia di una unica medaglia: facezia, assurdo malinteso, progetto incompreso:
(…)
Nel gemito dei giorni che già evade il mio succo vitale, la mia linfa oso cambiare e diventare uguale uguale, uguale a questa vita finta.
(…)
(da LA SAGA, pag. 71).
Giocando a fingersi poeta, il Poeta Fabrizio Dall’Aglio svela la sua visione magistrale e sublime, ineguagliabile e originale. Basterebbe leggere la prosa di pag. 64, quella recensione bislacca che dice tutto su Le Allegre Carte: il debito leopardiano, (si pensi al titolo che vezzeggia le “sudate carte” del poeta recanatese), l’ironia che sottende a molte delle composizioni, il tema dello smarrimento e quello della contraddizione:
Un linguaggio vertiginoso e abissale, sospeso sui margini di una quotidianità colloquiale, quasi inopinato residuo leopardiano di tristezza metafisica (…) A volte, la tensione si scioglie in guizzi improvvisi, o in velate ironie, dove gli ossimori fanno capolino occhieggiando qua e là lo smarrimento lirico del nostro tempo (…).
(da RECENSIONI, pag. 64)
Poetica della contraddizione, si diceva fin dalle prime battute, come lo è il fatto di una raccolta che tanto deride la bistrattata poesia e tanto ne fortifica il bisogno, ne ingigantisce la necessità, dando prova di un talento e di una freschezza così lontane da quanto si vuol parodiare. Perché se lo scrivere di Fabrizio Dall’Aglio insiste e non si sradica dal Barocco contemporaneo, ne è, altresì, l’antidoto e la rivolta, poesia che è ricerca etica prima che estetica. Si legga a tal proposito l’aforisma di pag. 32, che resta una dichiarazione di intenti illuminante:
Impara l’arte e mettiti da parte (da INVITO ESTETICO, pag. 32).
Parole che contrastano con la contemporanea età letteraria che spesso si riconosce per l’eccessivo esibizionismo e il suo essere a tutti i costi spettacolare.
Eppure non tutto è morto e questa anima romantica, un po’ démodé, che è Fabrizio Dell’Aglio, resiste e persiste, continua a credere all’illusione che viene dalla poesia, all’idea che non se ne possa fare a meno. Il Nostro sa che non è arrivato il momento di cedere, di soprassedere, di farsi da parte; ben lungi dall’appendere le scarpe al chiodo Isidoro Cordeviola alias Fabrizio Dall’Aglio ci regala un altro pezzo di bravura poetica che sarebbe degno del miglior Caproni:
Il vento, cos’è il vento oggi, e cos’era? Sapeva un po’ d’estate e di sudore. Il vento era la flotta passeggera Dei nostri giorni dilungati in ore. Ora lo stesso vento soffia piano. Ristagna negli anfratti di giornate Oscure e fitte, che con l’esca in mano Aspettiam si convertano in pescate. Animo, amico mio, perché lo scacco sarà per sempre meglio della sete Che ancor ci brucia; e intorno al nostro smacco Avremo ancora da gettar le rete. Non piglierem mai nulla, poco importa. Il vento che c’impiglia è orma la nostra Odiata amata vita senza quiete. (VII, pag. 61)