«L’ago del mondo in me» — Ospite: Marco Ercolani

Dialoghi di poetica a cura di Silvia Patrizio

 

 

 

Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive.

Wittgenstein, Pensieri diversi

 

 

 

S.P. Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin (fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà? Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?

 

M.E. “La poesia come sguardo di conoscenza in cui alla riflessione filosofica si intrecciano indagine estetica e formale”: parli del mio quotidiano campo di lavoro, nella ricerca della scrittura come nello studio della psiche. Quando la  parola, bloccata nel recinto di una sola prospettiva, smette di vorticare, diventa oggetto inerte che non seduce più: solo quando riprende a girare, inafferrabile trottola, riacquista il suo primo e indefinibile senso, quella natura di danza, di suono pieno di discorso. E questa danza come si esprime? Nel ricevere/mescolare suono e parola. Il poeta è essere concavo, teso a trasformare le complessità del mondo in visioni linguistiche, e mai essere convesso, chiuso in una veduta senza risonanze. Scrive Paul Valery: «Succedeva che Mallarmé, il meno primitivo dei poeti, tramite l’accostamento quasi ipnotico delle parole, tramite lo splendore musicale dei versi e la loro singolare pienezza, richiamasse alla mente quello che doveva essere l’elemento più potente della poesia delle origini: la formula magica». Se è impossibile trovare formule magiche per la poesia, non è impossibile che gli autentici poeti si escludano dal mondo riconosciuto, abitando un altro regno. «Quale sarà, allora, la condizione di un poeta che non onori il criterio della verosimiglianza, ma agisca in una grave penombra della mente? C’è un fenomeno adatto a descriverla: l’esperienza chiaroscurale di quelle figure che si vedono nel dormiveglia, nel caleidoscopio notturno proiettato sullo schermo interno delle palpebre… Questo sono, quelle figure: sogni incompleti. Sogni di chi sa di sognare… Capace di aspettare che il suono possibile si faccia fatale. Il poeta confida d’incontrare parole che possano riprendere in sé il segreto, l’impronunciabile mistero di quello che appare». Nanni Cagnone ci invita, con queste parole, alla pazienza di vivere quanto non è risolto, tenendo care le nostre domande come libri scritti in una lingua straniera. La poesia non guarisce chi si ammala, non trasforma il mondo, non lo guida a magnifiche sorti progressive. È disarmata, nuda, vinta, ma ha sempre qualcosa da dire perché il suo regno è quello dell’indicibile. La poesia esiste quando il discorso logico sparisce e ci consegna allo stupore di parole che tratteniamo per un istante e per un istante trascriviamo, nostre e mai solo nostre, imprudenti, infelici, rivoltose, amorose, ricche di infinito, di pericolo, di bellezza. La poesia è l’esperienza di sentirsi dentro le cose con il rigore di un linguaggio sospeso fra sonno e sogno. Ma questa sospensione non è arabesco del linguaggio o estasi mistica: è attenzione morale a una lingua che ci permetta di guardare dentro e attorno a noi senza impressionismi consolatori, senza vezzi linguistici, senza paesaggi rassicuranti. Guardare. Poi dormire. Poi svegliarsi, in stato di allarme, e combattere la dittatura dell’ovvio, non solo con la poesia in versi ma con il pensiero poetico.

 

 

S.P. Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?

 

M.E. Un rapporto costante. Ho sempre pensato che dentro la vertigine necessaria del gesto poetico abiti sempre la misura della “messa in forma”. La magia sta nel cercare la parola poetica come lingua altra che sia nido caldo in cui accogliere il diverso e scudo magico per proteggersi dall’estraneo, e rimandi, proprio nel suo essere nido e scudo, alla possibilità di un altrove che sospenda i codici esistenti. Il poeta può ancora sorprendere il lettore non per un nuovo gioco letterario ma perché cambia le maschere in gioco rischiando la propria lingua. Il presente dell’opera è sempre l’inattualità di una maschera. «Un’ombra si inginocchia sul tavolo/ scavando una luce nell’ordine delle cose» scrive Lorenzo Pittaluga (un poeta enigmatico e decisivo dell’ultimo Novecento, che ho avuto occasione di conoscere, da psichiatra, anche per le sue crisi schizoaffettive). Una luce scavata dall’ombra? Nell’ordine delle cose? Perché deve accendersi quella luce? Il poeta non si sbaglia: quella luce va accesa, a costo di rischiare la vita. La parola poetica «crea il presente vero». Nonostante viva all’interno del suo sogno, nessuna parola è ‘sognata’ ma è sempre ‘vera’, vicina al silenzio come al grido. Poesia è perdita di cui intonare il canto, cancellamento del linguaggio che la evoca, come accade nella poesia neutra di Pedro Salinas, e non volontà intellettuale di costruire l’architettura di una composizione. Poesia è lasciare che certe parole possano dire di noi, liberamente e assurdamente, e poi siano riordinate un attimo dopo che l’estasi e la confusione ci hanno pervasi. Chi dorme sogna di insorgere contro la realtà, anche contro se stesso. Poi si sveglia e si mette alla ricerca delle parole necessarie per trascrivere quel sogno – che è anomalia, sproporzione, aritmia. Eretica, nessuna poesia copia le visioni precedenti del linguaggio. La voce del poeta è sempre voce in un tempo che è fuori tempo e appartiene a chi non vive in sintonia. Elias Canetti avrebbe voluto scrivere un libro di giorno e un libro di notte, senza mai confondere i testi: solo anni dopo, in tarda età, gli sarebbe stato consentito fare un confronto fra le due scritture. Un libro del giorno e un libro della notte, scritti simultaneamente come scambio continuo tra passato e presente, sonno e veglia, vita e morte, è ciò che il poeta progetta per il suo ipotetico lettore. Ancora Canetti ci avvisa: «Il piacere della comunicazione è inversamente proporzionale alla nostra reale conoscenza dell’interlocutore e direttamente proporzionale al desiderio di interessarlo a noi… È noioso bisbigliare ai vicini. È inutilmente tedioso scandagliare la propria anima… Ma scambiare segreti con Marte, senza fantasticare, è un compito degno della poesia».

 

 

S.P. «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo attento, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?

 

M.E. Potere del linguaggio poetico sulla realtà? Sì, un potere possibile, vivo, pulsante. Qual è il compito del poeta? Chi è il suo interlocutore? “L’interlocutore”, come suggerisce Mandel’stam, è sempre il “lettore futuro”. Il messaggio nella bottiglia arriva proprio dove è necessario che arrivi. Il lettore prescelto arriverà a leggere un testo nato proprio per lui. Nasce qui l’utopia di una “comunità senza comunità”, dove i lettori trovano i loro poeti e i poeti i loro lettori, in un fecondo abitare, tra vivi e morti, al di qua e al di là dello specchio, compagni di illusioni diverse e di diverse forme di verità. Il poeta russo cercava, nell’ossatura dei versi, una “nuova fisica delle parole”. La lingua  poetica è una ‘prova estrema’ dello scrivere umano, oltre i manierismi e le scaltrezze della tecnica. L’azzardo si consuma fra i nessi imprevedibili della sintassi piuttosto che nell’isolata potenza della parola. I primi irradiano vibrazioni, la seconda brilla isolata. La bellezza non abita le formule estatiche della sua affermazione, non si appaga di una orgogliosa e prevedibile perfezione, ma di uno stato di permanente rifiuto di quella “melodiosità” che, secondo Celan, «ancora andava risuonando, più o meno imperturbata, assieme o accanto agli eventi più orrendi». Il poeta di Czernovicz suggerisce che il linguaggio poetico «non trasfigura, non ‘poetizza’ ma nomina e instaura, cerca di delimitare il campo del possibile e del dato. […] All’opera qui non è mai la lingua stessa, la lingua in sé e per sé; bensì sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo d’incidenza della propria vita e che cerca una delimitazione, un orientamento. La realtà non è, la realtà va cercata e conquistata». È dentro questo limite che l’avventura poetica continua: ma il tessuto dove le parole possono ancora tessere i loro scambi è un’esperienza che nasce dentro la naturale follia delle parole, che si cercano, si incrociano, lottano fra di loro, frantumate e disperse, ormai orfane d’autore. Compito del poeta è tenere fermo il filo col quale cucirle, come il veggente organizza il materiale delle sue visioni: questo filo è la prospettiva da cui intravede il proprio paesaggio, la propria irripetibile deformità. Una parola nata casualmente porta con sé un destino infinito, richiede gli strumenti di una frase, poi quella frase ne chiama un’altra e un’altra ancora, fino al silenzio: è un brulichìo sotterraneo di cui non sempre captiamo i suoni compiuti.

 

 

S.P. Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esserci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?

 

M.E. Il discorso di “poesia” e di “cura” mi coinvolge personalmente, come scrittore e come terapeuta. Si curano esseri fragili, “inadatti alla vita”, che vivono intensamente le loro fantasie soffrendone la complessità. Dai sintomi del turbamento psichico scaturisce, come ampliata da una cassa di risonanza, l’originalità utopica dell’opera poetica. Spesso questa originalità è una sospensione, uno stordimento che turba per i suoi ritmi irregolari. La poesia è crogiuolo in ebollizione: metafora dello spazio psichico è il cratere abissale del vulcano, dove la lava fluida si mescola a lapilli e schegge. L’identità umana del poeta è fluttuante: è scrittura barocca, passionale, incompiuta, dominata dalla “tempesta emotiva”. Del concetto di “tempesta emotiva” (il momento analogico in si vivono simultaneamente esperienze perturbanti), parla Ernst Kris, in Ricerche psicoanalitiche sull’arte: ogni arte è all’inizio onnipotenza, invasamento, disordine, affanno; le sensazioni si confondono e si affollano, come in una coinvolgente sinestesia: il controllo dell’io si allenta e l’impulso di creare si fa estatica magia: all’universo incandescente delle analogie corrisponde un’esplosione maniacale (primo esempio, fra gli altri, il lavoro febbrile e smisurato dell’ultimo Van Gogh) dopo la quale, esaurite le energie, può subentrare, come accade nel disturbo bipolare, uno stato depressivo. Ma, se ci prendiamo cura della “tempesta emotiva”, della sua “patologia”, se la ordiniamo dentro di noi, ciò che resta non è la guarigione dalla malattia, o almeno non solo, ma il lavoro vero dell’artista, la quintessenza della sua opera.

 

 

S.P. Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci il rapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla ridefinizione stessa del limite?

 

M.E. Un poeta non deve limitarsi a definire l’orizzonte dei suoi versi, il piccolo progetto della sua carriera letteraria. Deve ridefinire, ogni volta, il concetto di limite, guardando con curiosità alle altre arti (pittura, musica, cinema, etc) che interagiscono con lui. La scrittura, così, può diventare quello che deve essere: non un componimento letterario isolato ma un’etica del pensiero, una direzione del sentire, una forza che ci stringe nel regno della parola a sperimentare l’inadeguatezza dei nostri strumenti. Ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni letterarie, che la scrittura smette di essere inoffensiva e diventa, in ogni tempo, in ogni dimensione, energia trasgressiva, diagramma di una febbre, intrico di influssi.

 

 

S.P. Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?

 

M.E. Non mi sembra così provocatorio Wittgenstein, nella sua affermazione: essere uno specchio dove chi vi si riflette può riordinare la propria deformità è un messaggio debole. Forse è vero il contrario. Che il poeta, con le deformità e le novità del suo lessico, insegna l’altro a essere simile a lui, fuori dall’ortodossia dei canoni. L’”ago del mondo in me” non è una scelta di armonia ma di originalità. Si è spesso cercato, per la percezione poetica, di delimitare il dentro dal fuori, usando l’io come confine logico e l’es come slancio irrazionale. Ma oggi l’operazione è insufficiente. L’arte è nell’evento perturbante, non nei canoni che ci difendono dalla sua violenza emotiva. L’arte è nei nostri modi, anche sommari, di interpretare quell’evento. Ogni lingua poetica è funzionale alla descrizione dell’unheimlich, di ciò che appare alieno, inesplicabile: è, in sostanza, la necessità di venire a patti con l’apparizione allarmante, la catastrofe imminente. Ogni poeta vive la forma mentis della catastrofe. La sua è un’energia segreta, non uniforme, in perenne metamorfosi: il poeta può diventarne lo stratega e assistere agli effetti deflagranti – di distruzione/ricreazione del mondo – suscitati da un gruppo di parole. Allora la sua voce, cronaca di un evento alchemico e reale, realizzerà l’impossibile equilibrio: essere allo stesso tempo salda pietra – equilibrio compositivo – e spugna porosa – abbandono percettivo.

Certe visioni si consegnano alla confusione del sintomo, dove tutto è febbre, ma esigono anche la visibilità dell’armonia, dove niente è febbre. La scrittura poetica vaga, costretta ad inabissarsi e a ritornare. Solo rallentando l’attimo, finale e comune, della dispersione, attraverso molteplici finzioni ed estenuanti navigazioni, la scrittura diventa un oggetto esatto e tangibile per l’attimo, fulmineo in cui esiste il poema, il libro; ma, appena un attimo dopo, il testo non è più boa, àncora, approdo, ma ancora una volta onda di gorgo. Per ogni scrittore è indispensabile raggiungere il proprio personale naufragio, che è resistenza al linguaggio canonico e imminenza di parola poetica.

 

 

Nota. Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.

 

 

 

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Amante, il sonno

 

 

La felicità di tempo in tempo si aduna
ne la forma felice del tuo sonno.
Calogero

 

 

Nella parola alla deriva
il muro si fa mare
notturno, manda fruscii.
Nella parola alla deriva
ritorna quel mondo,
accorato e nostro.
Non pietre
ma antri, meteore, un profumo indefinito,
un lago senza grida, un ramo in fiore.
Tu sola
potevi far suonare segreti
che erano miei, carezzarli ora,
mentre sono fantasmi.

 

 

 

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Indichi il centro del labirinto nella colonna del duomo
e sorridi perché morte e vita si fermano
nel gesto della tua mano
nel dito ingenuo che verifica il mondo
come un solido universo da raggiungere e festeggiare
con canti d’aria
con stupore del futuro.
Se la casa crolla nel fuoco che la regge
se l’oscuro sparire delle cose
spalanca tutte le porte
allora, e per sempre, tienimi in te –
è pericolo la nostra assenza,
è aria con grida, è
morte.
Baciami adesso.

 

 

 

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Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore. Diversi i libri di narrativa apocrifa, di critica della poesia, di saggistica sul rapporto arte/follia. Fra i volumi più recenti: Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, ll tempo di Perseo, Discorso contro la morte, Preferisco sparire: colloqui con Robert Walser, Turno di guardia, Destini minori, Un uomo di cattivo tono, Il mese dopo l’ultimo, Galassie parallele, Due lettere a Freud, L’età della ferita, L’altro dentro di noi, Sindrome del ritorno.
Fuoricanto, Vertigine  e misura e Fuochi complici i suoi libri di critica della poesia contemporanea.
Ha raccolto i suoi notebooks in Sentinella, Essere e non essere e Nottario, le poesie in Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere.
Vince il Premio Smasher, il Premio Morselli, il Premio Montano.
In coppia con Lucetta Frisa scrive: Détour, L’atelier e altri racconti, Anime strane, Sento le voci, Diario doppio, Furto d’anima e dirige la collana I libri dell’Arca.

 

 

Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); GradivaInternational Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo PoesiaStrisciarossa (2023). Fa parte della redazione di Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.

 

 

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© Foto di proprietà di Chiara Romanini.