Paula Meehan — «Ogni filo d’erba è una runa / incisa dalla brina»

Nota e traduzioni di Sabrina Tolve

 

Paula Meehan (Dublino, 1955) è una delle voci più potenti della poesia irlandese contemporanea. Le sue poesie intrecciano biografia, mito e denuncia sociale in una lingua che sa essere visionaria e incarnata. Nei componimenti qui tradotti (Well, My Father Perceived as a Vision of St Francis e The Statue of the Virgin at Granard Speaks), la Meehan esplora luoghi liminali: la soglia tra notte e giorno, visibile e invisibile, corpo e spirito, storia e leggenda.

Nella poesia di Paula Meehan, la materia del mondo si fa lingua oracolare, e il corpo è lo strumento attraverso cui la conoscenza accade. Non c’è scarto tra paesaggio e coscienza, tra storia e visione, tra gesto quotidiano e momento sacro. Le immagini si intrecciano in un flusso che non cerca di spiegare ma di evocare: la luna che si rifrange nell’acqua, il padre che lancia briciole agli uccelli all’alba, la statua della Vergine che confessa la propria impotenza. In questo universo, il sapere non è razionale, bensì incarnato. Il pozzo non è solo una fonte d’acqua, ma una discesa nella materia misteriosa della vita; l’uomo che nutre gli uccelli è figura di una santità senza dogmi, una benedizione lenta che si manifesta nella cura muta; e la Vergine, pietrificata dal potere patriarcale, grida infine il desiderio di tornare carne, di sporcarsi, di amare e sanguinare. Meehan non oppone simbolo e realtà, ma li fonde. Il sacro è inseparabile dal dolore, dalla perdita, dalla tensione erotica, e la parola poetica diventa allora rito di riparazione, invocazione, atto di giustizia. La sua voce affonda nelle pieghe della cultura irlandese per smascherarne le ipocrisie e al tempo stesso restituirle un’altra possibilità di bellezza, più vulnerabile e vera. Se c’è una redenzione, non viene dall’alto, ma da un ascolto radicale della terra, dei corpi, del silenzio.

In queste poesie, la Meehan non solo si fa testimone del suo tempo e dei suoi luoghi, ma riesce a denudare il tutto in un potente rito di trasformazione. In un’Irlanda ancora segnata da fratture profonde, Paula Meehan offre una via altra, che è poi anche quella antica: quella della parola che scende nei pozzi, sfiora le visioni, e trasforma la storia in canto.

 

Sabrina Tolve

 

 

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Il pozzo — Well

 

Riconosco questo sentiero con la magia, non con gli occhi.
Alle mie spalle, sul pendio, la luce del cottage
è come una stella che si è smarrita. La luna
sta calando in fretta, ogni filo d’erba è una runa
incisa dalla brina. Questo sentiero è ben tracciato.
Porto un secchio tra rovi e biancospini in fiore.
Riconosco questo sentiero con la magia, non con gli occhi.
Al mattino, quando torno a casa spettinata,
non riesco a dire cos’è accaduto alla fonte.
Tu rifiuti la storia del sortilegio dei sensi
lanciato dallo spirito che custodisce la sorgente
che ribolle in fondo al ventre della terra,
anche quando ti mostro cosa ho trovato nel secchio —
una luna d’oro calante, sette stelle d’argento,
la luce del nostro portico,
il tuo volto alla finestra che fissa il buio.

 

 

 

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Mio padre percepito come una visione di San Francesco — My Father Perceived as a Vision of St Francis
per Brendan Kennelly

 

Fu il cavallo pezzato nel giardino accanto
a svegliarmi da un sogno
con il suo nitrito all’alba. Ero di nuovo
nella stanzetta della casa,
ora la stanza di mio fratello,
piena di cravatte e maglioni e segreti.
Le bottiglie tintinnavano sullo zerbino,
il primo autobus si fermò alla fermata.
Il resto della casa dormiva

tranne mio padre. Lo sentii
rimuovere la cenere dal focolare,
attaccare il bollitore, canticchiare un motivo.
Poi aprì la porta sul retro
e uscì in giardino.
L’autunno era quasi finito, la prima brina
imbiancava le tegole del quartiere.
Era più vecchio di quanto immaginassi,
i capelli completamente grigi,
e per la prima volta vidi l’incurvarsi
delle sue spalle, notai
che la sua gamba era rigida. Cosa sta facendo?
Così presto, con le stelle ancora a ovest?

E poi vennero: uccelli
di ogni forma, colore, grandezza; vennero
dalle siepi e dagli arbusti,
dalle grondaie e dai capanni,
dall’area industriale, dai campi lontani,
vennero da Dubber Cross
e dai fossati di North Road.
Il giardino era un pandemonio
quando mio padre alzò le mani
e gettò le briciole nell’aria. Il sole
oltrepassò il comignolo di O’Reilly
e lui fu improvvisamente raggiante,
una perfetta visione di San Francesco,
integro, giovane di nuovo,
in un giardino di Finglas.

 

 

 

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La statua della Vergine di Granard parla — The Statue of the Virgin at Granard Speaks

 

Può essere amaro stare qui in momenti come questo,
il vento di novembre che spazza oltre il confine.
I suoi semi di ghiaccio ti ferirebbero fino al midollo.
Tutto il paese è rannicchiato al sicuro, sognando,
perfino le creature selvatiche si sono rifugiate, e io
inchiodata quassù in questa grotta, senza neanche
una stella o un pianeta a confortare la mia veglia.

L’ululato non si placa. Gli alberi
si contorcono nell’agonia come se volessero liberarsi
e spiccare il volo – spettri viaggiatori
nel vento che porta echi
di città fortificate, città murate, vicoli di ghetti
dove gli uomini si danno la caccia e invocano
i vari nomi di Dio come benedizione
per le loro tattiche di morte, le loro manovre notturne.
Più vicino a casa, il vento scivola sui
laghi morenti. Sento i pesci affogare.
Assaporo l’acqua stagnante mescolata
al fumo di torba delle fattorie isolate.

Mi chiamano Maria – Beata, Santa, Vergine.
Mi adattano a un mito di uomo crocifisso:
la flagellazione e le cadute, e le ricadute,
la corona spinosa, il colpo di martello sul ferro
nei polsi e nelle caviglie, il sacro cuore sanguinante.

Mi chiamano Madre di tutto questo dolore
sebbene non abbia conosciuto uomo mortale.
Si inginocchiano davanti a me e le loro preghiere
si alzano come scintille da un falò
che brillano per un momento, poi si spengono.

Può essere incantevole stare qui a volte. Primavera,
inizio estate. Ragazze nei loro abiti da Comunione
pallide rivali del tripudio delle siepi
di pimpinella e fior di biancospino, il profumo
di ogni acro paludoso lasciato per il fieno
quando la luce si allunga con la spinta del sole verso nord.

O la grazia di un matrimonio d’estate,
quando la terra stessa chiama all’unione
e vorrei liberarmi delle mie vesti di pietra,
azzurro puro, bianco puro, come se avessero rubato
il cielo di un bambino per i loro colori. Il mio essere
grida di voler essere incarnato, incarnato,
macchiato e scompigliato in un letto di miele.

Perfino un funerale autunnale può offrire la sua sontuosità.
Le siepi gravide del peso di frutti di
meli selvatici, prugnoli, bacche, cinorrodi; le nuvole corrono a est,
profumo di pere, frutti caduti segreti nell’erba alta del frutteto,
e qualche vecchia anima viene calata
tra i suoi cari. La morte è solo un altro raccolto
scritto nel copione della stagione.

Ma in questa Notte dei Morti non c’è
riposo dal lamento del vento.
Non mi sorprenderebbe se ogni cadavere si sollevasse
dalla tomba per unirsi in esultanza con la tempesta,
una cacofonia di ossa che implora il cielo per un giudizio
e la liberazione dall’essere la coscienza del paese.

In una notte come questa ricordo la ragazza
che venne con quindici estati al suo nome,
e si stese sola ai miei piedi
senza ostetrica né dottore né amico a tenerle la mano,
e spinse il suo segreto fuori nella notte,
lontano dal paese rannicchiato in piccoli scandali,
affari conclusi, promesse infrante, preghiere, giuramenti,
e sebbene mi chiamasse in extremis
non mi mossi,
non alzai un dito per aiutarla,
non intercedetti con il cielo,
né sussurrai la parola magica all’orecchio di Dio.

In una notte come questa conto i giorni fino al solstizio
e il ritorno alla luce.
O sole,
centro della nostra folle danza,
cuore di pietra che brucia,
madre fusa di tutti noi,
ascoltami e abbi pietà.

 

 

 

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Paula Meehan (Dublino, 1955) è una delle voci più significative della poesia irlandese contemporanea. Ha pubblicato numerose raccolte, tra cui The Man Who Was Marked by Winter, Painting Rain, The Solace of Artemis, ed è stata Poet Laureate di Dublino dal 2013 al 2016. La sua poesia, intensa e accessibile, attraversa temi come il corpo, la spiritualità, l’ambiente urbano e la memoria familiare, intrecciando lirismo e impegno civile. Le sue opere sono tradotte in diverse lingue, ma restano inedite in italiano.

 

Sabrina Tolve (Potenza, 1984) è poeta e traduttrice, e vive in Irlanda dal 2015. La sua scrittura attraversa la soglia tra lingue, paesaggi e ritualità quotidiane, con particolare attenzione al corpo, al mito e alla memoria. Ha pubblicato poesie e traduzioni su riviste italiane e internazionali. È tra le fondatrici dei collettivi poetici Sincronie ~ poesia itinerante e La Lenza, entrambi dedicati alla formazione e alla riflessione poetica. Traduce principalmente poesia irlandese contemporanea, con un interesse speciale per le voci femminili.

 

 

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© Si ringrazia Dedalus Press.

© Immagine di Pixabay.