«D’oro e neve». Contemplando Bécquer

Nota e traduzioni di Giovanni Rapazzini de' Buzzacarini

 

Dice la trita e ritrita, ma sempreverde, formula di Menandro che muore giovane chi è caro al cielo e giovane morì Gustave Adolfo Bécquer (Siviglia 1836 – Madrid 1870), anche se, come afferma l’io lirico nella rima 32, condensò “un secolo in ogni giorno”.

È uno dei poeti più letti e studiati della letteratura spagnola, con lui nacque la lirica moderna nella lingua di Cervantes. Ebbe una vita travagliata che ispirò la leggenda di un genio sfortunato e incompreso, ma non fu così. Fu scrittore riconosciuto nei circoli intellettuali e politicamente schierato in una Spagna che viveva forti turbamenti politici.

Il libro che conserva la maggioranza dei suoi pochi versi arrivati fino a noi si chiama Libro de los gorriones, letteralmente “libro dei passerotti”. Qui sono raccolte 79 delle 85 superstiti poesie di Bécquer. Il poeta ricompose questo manoscritto a memoria dopo aver perduto la prima stesura che raccoglieva le sue poesie. Si perse perché lo aveva dato al suo protettore e amico, Gustavo Bravo, all’epoca primo ministro di Spagna, che nella rivoluzione del settembre 1868 ricevette un assalto alla sua casa; nei tumulti i versi di Bécquer si smarrirono.

Le rime di Bécquer sono liriche metafisiche e sensuali, sono fiori e sono frecce che cercano il mistero dell’amore nelle sue varie sfaccettature, lo indagano con rispetto sacro e ironia, come nella celebre rima 12, qui in una mia traduzione inedita, come tutte quelle che seguiranno.

 

Come il selvaggio che con mano rude
Fa di un tronco a suo capriccio un dio
E dopo s’inginocchia davanti la sua opera
Facciamo tu ed io.

Diamo forme reali ad un fantasma,
ridicola invenzione della mente,
e fatto l’idolo, sacrifichiamo
il nostro amore al suo altare.

 

 

L’idea dell’amore come feticcio che apparenta il moderno uomo occidentale al selvaggio è di una modernità psicoanalitica. Il poeta ci dice, come poi dissero chiaramente Machado e Cernuda e come già disse Shakespeare ne La dodicesima notte e chissà quanti altri, che l’amore è fantasia, è immagine, è fantasma. Che siamo noi a plasmare il nostro idolo e a questo sacrificarci; un idolo che come il tronco del selvaggio in cui s’intaglia la forma di un dio è arte ed è poesia, come l’amata stessa:

 

“Cos’è poesia?” Dici mentre fissi
Nella mia pupilla la tua pupilla blu.
“Cos’è poesia? E me lo domandi?
         Poesia sei tu…

 

 

Accrocca l’alterità, la rima 21, con l’arpione delle sillabe e della semplicità di uno scambio di battute. Spesso gli occhi, le pupille sono i fuochi fatui da seguire per andare oltre nella strada, una colonna di fumo e incenso, che si apre nel cielo del mistero. Questi occhi, queste pupille:

 

 (Rima 21)

 

La tua pupilla è blu e quando ridi
il suo chiarore soave mi ricorda
il tremulo fulgore del mattino
    che si riflette in mare.

La tua pupilla è blu e quando piangi
le lacrime trasparenti in lei
mi sembrano gocce di rugiada
    sopra una violetta.

La tua pupilla è blu e nel suo fondale
come un punto di luce s’irradia un’idea,
nel cielo della sera, mi sembra
      un stella perduta.

 

 

Spesso in questi occhi si ritrova la natura, si ritrovano le immagini degli elementi, l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra, si ritrovano le stelle con una musica e un dettato semplice e anaforico, che accompagna e riflette gli opposti, l’innamoramento e il tradimento, il riso e il pianto, la pietra e le onde, per arrivare a trovare le parole e i silenzi che le conservino nei misteri della visione e nei suoi abissi, nell’unione tra due due anime:

 

(Rima 33)

 

Due lingue rosse di fuoco
intrecciate a un tronco
s’avvicinano, e si baciano
formano una sola fiamma;

due note che dal liuto
la mano strappa a un tempo
e s’incontrano nello spazio
e s’abbracciano armoniose;

due onde che unite vanno
a morire sopra una spiaggia
e che si coronano infrante
con un pennacchio d’argento;

due batuffoli di vapore
che si alzano dal lago,
e riunendosi in cielo
formano una nuvola bianca;

due idee che sorgono assieme,
due baci che schioccano a un tempo,
due eco che si confondono:
sono questo le nostre anime.

 

 

Nell’unione tra due anime e nella loro separazione, nella grande separazione che è la morte, nel suo grande abbraccio, si allungano i sospiri delle sillabe, si trovano le visioni per dare senso alla solitudine dei morti, per ascoltare le statue granitiche dei santi e vedere gli angeli che vegliano il paradiso in compagnia dei gufi, calpestando le ortiche; con la poesia si danno sensi per l’insensibile, si danno occhi per vedere l’invisibile, per guardare l’amore che passa:

 

(Rima 46)

 

Gli atomi invisibile dell’aria
attorno palpitano e s’infiammano,
il cielo si disfa in raggi d’oro,
la terra si scuote esultando.
Sento fluttuare con onde d’armonia
brusio di baci e battiti d’ali;
le mie palpebre si chiudono… Che succede?
Dimmi…? Silenzio! Sta passando l’amore!

 

 

Una cecità veggente, un amore che spesso transita per rimanere come una foglia d’acero nelle viscere, come Ofelia canta e raccoglie fiori, come un poema è contenuto in un verso e l’universo dell’amore viene annunciato da un fiore:

 

(Rima 52)

 

Quando inclini sopra al petto
la fronte melanconica
un giglio strappato
    mi sembri.

Perché dandoti la purezza
di cui è simbolo celeste,
come lei ti fece Dio
   d’oro e  neve.

 

 

 

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Giovanni Rapazzini de’ Buzzaccarini, nato a Milano, vive tra l’Italia e la Spagna dedicandosi alla contemplazione, alla filosofia e alla poesia. Ha pubblicato un saggio concepito come un poema scientifico in prosa intitolato “La poesia e il divino, un viaggio alle origini della parola”, per Fallone Editore. Il suo primo libro di versi, “Fòs”, è in uscita per Puntoacapo Editrice.

 

 

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Il ritratto di Gustavo Adolfo Bécquer è stato dipinto da suo fratello Valeriano Bécquer nel 1862 ed è di dominio pubblico. Fonte: Wikimedia Commons.