Antonia Gaita, Alfonso Borghi, “Gli sguardi, forse” (Book Editore, 2024)

Nota a cura di Max Mazzoli

Le fonti di ispirazione di un poeta sono molteplici. Possono attingere a un patrimonio personale fatto di vissuto, di sensazioni e di vicende che hanno con il tempo costituito un bagaglio emozionale esclusivo e unico che diventa sia un filtro applicato a ciò che ci si presenta davanti ma anche un motore creativo vòlto a produrre versi che misurano il nostro mondo e il proprio rapporto con un universo più ampio.

Cosí la poesia può scaturire dai propri amori, da motivazioni di impegno sociale e civile o politico, o da una risposta ad altri poeti e correnti poetiche in un ideale scambio di idee.

A volte però il poeta si permette di cercare e di sondare altrove. Questo è quello che succede quando la diretta fonte che genera la creazione è il mondo dell’arte figurativa. E non è certo un caso che anche in poesia si parli di “creare immagini”. Un’appropriata metonimia che sposa due metodi di espressione: uno che parte dalle immagini per arrivare alle parole, ma che funziona anche in senso opposto – ovvero partendo dalle parole per arrivare a immagini evocative rappresentate visualmente. Quindi, ed appropriatamente, questo “altrove” fatto di arte figurativa a cui il poeta guarda e attinge, non è poi così “altro” o alieno, ma è esso stesso un’espressione artistica che entra in simbiosi con il mondo della poesia.

Si tratta infatti di una operazione già sperimentata con successo da altri autori (vedi Omero, che descrive lo scudo di Achille [Iliade, libro 18]; o Ode su un urna greca [1918] di John Keats) e anche dalla nostra poetessa Antonia Gaita in un suo precedente libro dal programmatico titolo Ripetere il mondo (Book Editore, 2020), operazione che i classici battezzarono con il nome di ekphrasis (etimologicamente: estrarre, esporre, descrivere con eleganza).

Quando l’universo visibile dell’arte figurativa si unisce a quello della parola poetica, si crea una sinergia.

Da una parte un’immagine riprodotta, come forma d’arte, può generare pensieri e parole vòlte, più che a descriverla, a esprimere la sensazione emotiva di bellezza, di stupore o di sgomento che questa intende suscitare. Dall’altra, la parola scritta (sia in prosa che in teatro, ma soprattutto in poesia) tende a risvegliare immagini interiori, fatte di forme e colori. Più queste immagini e forme sono distaccate dalla mimesis – ovvero da un mondo subitaneamente riconoscibile – più danno vita a interpretazioni e a creazioni nuove.

Il “santo graal” di ogni forma d’arte è sempre e ancora quello di cercare, di inventare e proporre qualcosa di nuovo. È nell’atto della creazione dell’arte che l’essere umano si sente piú vicino a Dio. Sia per il credente che per l’ateo e l’agnostico l’arte è, aldilà della possibilità biologica di fare figli e far sí che i nostri geni continuino a propagarsi, forse l’unico modo per darci un’illusione di senso e lasciare un segno: per essere noi gli artefici e non più solamente comparse terrene soggiogate dai dettami e dai limiti dell’esistenza. Con l’arte prendiamo a piene mani la possibilità di divenire, di essere e di creare ex-novo. E quale più stimolante punto di partenza per un’arte, quella della poesia, se non partire proprio da un’altra arte, quella della pittura?

Nella commistione e nell’incontro dell’immagine verso la parola e della parola verso l’immagine sta la caratteristica esclusiva della ekphrasis.

Spesso l’arte figurativa può coadiuvare la comprensione di una corrente artistica. Se per esempio volessimo definire o descrivere una poesia surrealista, dove le connessioni tra concetti e lessico creano una dimensione nuova e diversa, potremmo invitare l’interlocutore alla visione di immagini di pittori surrealisti, per meglio comprendere in modo alquanto immediato quello che il surrealismo intende proporre.

L’avvicinarsi poi a un tipo di arte pittorica cosiddetta informale come quella del pittore Alfonso Borghi, e il confrontarsi con essa, offre un ulteriore spunto per sondare la parola poetica verso orizzonti nuovi.

Il compito della poetessa Gaita qui potrebbe avvicinarsi a quello di un vedente che funge da medium per fornire sensazioni e significati ad un non-vedente. O ancora, continuando con le analogie, potremmo dire che il poeta che pratica ekphrasis può essere considerato alla stregua di un traduttore. E in ogni traduzione esiste tradimento e interpretazione. Detto questo dobbiamo comunque tenere sempre presente che sia il quadro generatore di versi, che la poesia da esso generata godono a tutti gli effetti di una indipendenza e di uno status proprio. Quindi anche solo leggendo le poesie di questo libro senza vedere i quadri che le hanno suscitate, nulla toglierebbe al loro valore intrinseco.

Fortunatamente, e per completezza di intenti, in questo libro, si presenta anche la possibilità di vedere riprodotti tutti i quaranta quadri ispiratori delle quaranta poesie che lo compongono. Saranno poi i lettori, e i “guardanti” (“forse”) a trarre le proprie conclusioni, a fare connessioni, a indagare su come e quanto l’immagine visiva abiti la parola poetica e viceversa.

Il lavoro di Antonia Gaita parte spesso da una meditazione che tende a dipanare un senso fatto non tanto di significati chiusi e definiti, ma bensì di possibilità aperte ad un assaporare nuove dimensioni, nuove geometrie e combinazioni di forme e colori.

Il lavoro della poetessa in questa raccolta si accinge ad essere come la colonna sonora di un film.

Come le note e il ritmo di una colonna sonora accompagnano e sottolineano in modo consono gli avvenimenti dell’azione sullo schermo, allo stesso modo le parole della poetessa accompagnano le immagini del pittore sulla tela. A volte felicemente completano l’opera visiva, altre volte la esaltano e la estendono, mai la riducono.

Ne Gli sguardi, forse, il titolo dal tono dubitativo ci pone subito su una strada che richiede attenzione e libertà dalle costrizioni del luogo comune.

Se Walter Benjamin nel suo famoso saggio ci allertava sui pericoli della riproducibilità dell’opera d’arte (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1935]), potremmo (forse) altrettanto sostenere che nel descrivere e raccontare un’immagine gli si attribuisca una nuova forma di vita, riconsegnandole quell’aura che la facile riproducibilità meccanica, dispersa in una moltitudine di fotografie, le ha tolto.

I quaranta dipinti qui presentati seguono un arco evolutivo dell’arte di Alfonso Borghi, nel quale il pittore si confronta con le più suggestive correnti artistiche degli ultimi due secoli sino ad arrivare a un’espressione “informale” tendente all’astratto, dove la tela si inspessisce di materiale in rilievo che diventa terreo e ctonio. Parallelamente, l’operazione poetica di Antonia Gaita mantiene una costante nel metodo descrittivo dove coinvolge il lettore divenendo lei stessa il tramite tra immagine e parola, via a via estendendo, partecipando, interpretando, ponendo quesiti e suscitando emozioni; ma poi, proseguendo, la sua scrittura si evolve in “immagini” più complesse e più astratte allorché i dipinti diventano più “informali”: riemergono dissepolte immagini ed è là dove la parola del poeta rinasce, dove il pittore ha colto e fermato l’incanto (p 78-79 Sono fiabe di cristallo).

L’intenzione della poetessa, come sottolineato dalla nota di Alessandro Quasimodo, è quella di inseguire con “brama sempre inappagata” quella “sete cosmica” che la avvicini all’espressione poetica di cui è esperta, fino ad arrivare alle parole che sono di volta in volta “petalo” o “pietra”. L’azione poetica è qui volta ad estrinsecare dai quadri quello che essi contengono, soprattutto alla luce del fatto che – come bene nota Roberto Sanesi – “Sembra […] che sia proprio la poesia a muovere dall’interno […] la pittura di Borghi”.

Degna di nota è l’operazione che Gaita mette in atto quando un dipinto di Borghi dimostra più evidenti connessioni con altri maestri del passato. Qui infatti anche la poetessa a sua volta riprende versi di noti vati della poesia Italiana. Si veda per esempio l’opera di Borghi I cavalli (p20-21). Se l’immagine fa eco ai cavalli di Franz Marc, le parole ripropongono in forma di citazione noti versi di Giovanni Pascoli da La cavalla storna.

E ancora, più avanti (p52-53 Il labirinto della vita), dove il quadro di Borghi può riportarci istintivamente ad alcuni quadri George Braque, Gaita interviene ponendo all’interno della sua poesia versi di Montale:
“una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Versi che insieme agli originali della nostra poetessa, sentieri spezzati, vicoli ciechi, propriamente si addicono al tono e al contenuto, oltre che all’esperienza visivo-emotiva, di quest’opera.

La poetessa crea quindi un parallelismo significativo: là dove l’arte cita altra arte, allora anche la poesia cita altri poeti.

Con Antonia Gaita ci troviamo di fronte ad una esigenza espressiva dove il verso è sempre preciso ed epurato frutto di lunga ricerca ed esperienza poetante che non solo riflette specularmente ma amplifica l’immagine: ed ecco che si staccano cavalli di fuoco [con] zoccoli sonori e criniere nel vento (p 18-19 I cavalli del Ventasso).

Verso che arriva a riuscite espressioni oniriche e va aldilà della semplice mediazione dell’interpretazione del reale: liquide luci […] e l’anima riposa.
(p42-43 Nel silenzio della lanca).

 

Antonia Gaita, nata a Parma, ha insegnato nella scuola elementare annessa al Convitto Nazionale “Maria Luigia” di Parma. Sue poesie figurano in alcune antologie poetiche e nel volume a due voci (con Paola Casoli) Chiarori (Fondazione Cassa di Risparmio di Parma, 1997). Con l’editore Battei ha pubblicato i volumi: I giorni che abbiamo attraversato (1989); La casa del diavolo e altri racconti (1992); Il piacere di scrivere (1998); Il piacere di leggere (1999). Per i tipi di Book Editore ha pubblicato le raccolte di poesie: Un punto d’orizzonte (2005, nota di Alberto Bevilacqua, Premio “San Domenichino”); Transito di luna (2008, prefazione di Alessandro Quasimodo); Con identica mano (2011, nota di Daniela Pericone); A fiamma raccolta (2014, nota di Alessandro Quasimodo); Con forza di radici (2017, nota di Paolo Briganti, premio “Byron – Golfo dei Poeti” 2023); Ripetere il mondo (2020, versi per l’arte); Se questo accade (2021, prefazione di Paolo Briganti). Vive tra Parma e Forte dei Marmi.

 

Alfonso Borghi, nato nel 1944 a Campegine (Reggio Emilia), espone per la prima volta a 18 anni grazie all’aiuto di un collezionista. In seguito soggiorna per un breve periodo a Parigi, affascinante capitale che ne segna il percorso artistico e dove ha modo di studiare i grandi Maestri, in particolare Picasso e gli altri esponenti del Cubismo. In oltre quarant’anni di attività, Borghi è approdato ad una sintesi pittorica di indiscutibile coinvolgimento, passando dal figurativismo morandiano dei primi anni al surrealismo lacerante degli anni Ottanta, quindi a un astrattismo di impronta futurista nel decennio successivo. Oggi ha raggiunto una sintesi in cui un uso sontuoso e abilissimo della materia si associa ad uno straordinario senso del colore, privilegiando sempre il dialogo tra la sua sensibilità e le voci della musica e della poesia, mettendole in relazione estetica con l’epifania del suo lavoro. Le sue opere si trovano in importanti collezioni pubbliche, private e musei in Italia ed Europa. Vive e opera a Caprara di Campegine (Reggio Emilia).