nota di lettura di Fabiano Alborghetti
Essere attivista letterario in tempi o territori “di pace” è visto con sospetto ma esserlo in luoghi dove la legge è dettata da regimi politici o religiosi conduce alla morte o per i più fortunati alla prigione. È questo il caso del giornalista, politico, attivista letterario e poeta siriano Faraj Bayrakdar che ha passato 15 anni nelle carceri sotto il regime di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar.
Nato nel 1951, è stato incarcerato nel 1987 con l’accusa di essere membro del partito comunista; il primo processo si è svolto però solo nel 1993, dove è stato condannato a 15 anni di lavori forzati.
Nella nota di copertina della casa editrice nottetempo, vengono dati dettagli ulteriori: arrestato tre volte dalle autorità siriane, due negli anni Settanta, perché dirigeva una rivista letteraria che promuoveva giovani poeti siriani, e la terza nel 1987 come membro del Partito di Azione Comunista, Faraj Bayrakdar ha passato quasi 14 anni in prigione, quattro nella famigerata carcere del deserto Tadmur “un regno di morte e follia”. Senza penne o matite, componeva i versi e li mandava a memoria, a volte con l’aiuto dei compagni di cella. “La poesia mi ha aiutato a imprigionare la mia prigione, è stata una difesa attiva.” Viene liberato nel novembre del 2000 ma non è bastato. Nel 2003, quando Bayraqdar – da uomo libero – si è rivolto all’Unione degli Scrittori siriani (Ittihâd al-Kuttâb al-Suriyyîn) perché gli pubblicassero Anqâd (“Rovine”), raccolta di poesie scritta negli anni vissuti da carcerato, si è sentito rispondere che, malgrado l’intrinseca qualità dei versi (espressamente riconosciuta nei rapporti dei due comitati dell’Unione incaricati della lettura), la raccolta era impubblicabile perché contenente molte poesie suscettibili di “nuocere al sentimento nazionale e al senso di appartenenza alla patria” (isâ’a ilâ al-fikr al-qawmî wa’l-intimâ’ ilâ al-watan).
Quattro le raccolte edite e sino ad ora nessuna in traduzione italiana, fatto salvo per alcuni testi che proprio Elena Chiti, sua traduttrice, è riuscita a proporre e poi a fare pubblicare sulla rivista SiriaLibano (e una manciata d’altre, nella traduzione di Jolanda Guardi, su letture arabe).
Onore al merito, quindi, alla casa editrice nottetempo (ora in fase di trasloco da Roma a Milano) per avere accolto il progetto di traduzione proponendone per la prima volta i versi in una traduzione magistrale.
Molte risposte sono possibili, ma una, la più sottaciuta, risuona delicata e violentissima proprio nelle poesie di Faraj Bayrakdar: resistenza e umanità. Ed è grazie a queste poesie che non è solo la sua voce a vivere, ma quella di un popolo intero; un popolo composto da forza ed orgoglio, da dolore per i resistenti e per le vittime. E forse questa raccolta è necessaria per ridare ulteriore luce alla speranza che, proprio come l’autore stesso ripete, è ora più chiara, più forte e più grande che mai.
Fabiano Alborghetti