“I SEGNI, UN CANTO”
Entre el ojo y la forma
hay un abismo
en el que puede hundirse la mirada (1).
José Ángel Valente
La revisione è ciò che si vede dopo, a posteriori, la verifica di un accaduto. Ed è proprio tra accaduto e accadere, tra immagine e occhio, tra parola e cosa che sta la faglia che percorre per intero il nuovo libro di Alessandro Grippa, dal titolo Revisioni.
È mai possibile rivedere due volte la stessa cosa? In un certo senso, la scrittura per Grippa è anche un rivedere, revisione appunto e accertamento dell’evento, però in un tempo in perdita, che arriva dopo l’accadimento, e proprio per questo relegato a una differenza qualitativa rispetto a qualcosa che si è esperito e si vorrebbe dire, ma che al dire stesso oppone resistenza. Un tempo altro, postumo agli accadimenti, zona di conflitto in cui pare già sancita la sconfitta per chi impugna la penna con la mano presente, intento a lasciare un segno che non può essere che nero, come una «tache noire (2)». Troppo facile e consolatorio sarebbe però arrendersi alla constatazione di una tale disfatta e cedere a un silenzio definitivo, oppure straniarsi in giochi di parole.
Prendendo così avvio da questo blocco di partenza, la prova di forza di Alessandro Grippa si fa ancora più coinvolgente; se da un lato dichiara lo scarto tra segno e cosa:
sono solo schizzi le frasi, più lontane dei rami
alla finestra, un vuoto manifesto, revisioni;
per ritrovarvi lì, traditi nel discorso e persi (3)
dall’altro non demorde nella ricerca di un dire che sia plenitudine. Anziché sventolare bandiera bianca, s’ingegna per trasformare la dichiarazione dello scacco e ritrovarsi sempre davanti a una nuova pagina bianca, per un’ulteriore revisione che sia però anche una possibilità inedita:
nel silenzio, a capo, dove una luce stanca,
dove il foglio torna ad ogni svolta:
in quell’icona che ritorna bianca
insieme a te ogni volta (4)
Si moltiplicano così le soluzioni formali, che proliferano in questo libro di ricerca fitto di linguaggi, in cui la scrittura s’intreccia ad altre arti, senza mai però essere didascalica, né mera ecfrasis, cercando piuttosto di seguire la nota emanata da quanto si ha davanti, per continuarne semmai la musica in un accordo. Nella tecnica di composizione, infatti, a dominare è proprio la paratassi.
Scrittura spesso di taglio cinematografico, dove lo sguardo ha un ruolo privilegiato nel percepire il mondo, in un vedere che sovente si fa portatore di interrogazioni implicite, imbastendo una vera e propria indagine ontologica sullo statuto delle immagini. A volte, con gli occhi chiusi, ritagliandosi in lontananza uno spazio da cui speculare, altre volte, invece, immergendosi nella lacerante contraddizione tra immagine della cosa e cosa stessa. Invertendo i termini della celebre critica mossa da Sartre nei confronti di Baudelaire, in cui il pensatore francese argomentava che l’autore di À une passante «si guarda vedere; guarda per vedersi guardare (5)», potremmo dire che Grippa, in certi momenti, si vede guardare, il che è scaturigine della sua inchiesta sulla visione, nonché motivo delle sue revisioni.
L’autore si avvicenda a scovare un dire che coincida con la cosa, sperimentando (e vorrei togliere da questo termine ogni accezione ludica in cui a volte è incorso certo sperimentalismo avanguardista) forme che possano calzare il piede veloce e sempre in corsa delle cose del mondo, financo le pietre, un film, oppure un volto, un quadro, un video su youtube, l’immagine di una via su Google Maps, grazie a una scrittura agile e densa al contempo, che in certi testi assume i tratti di una vera e propria fenomenologia del digitale.
Sembrerebbe una lotta senza via di scampo, tragica, così come annunciato nelle premesse di questo conflitto, in cui si constatava appunto la frattura tra le parole e le cose, quindi l’impossibilità di dire il mondo, che la nostra tradizione europea moderna ha saputo raccontare in modo esemplare e drammatico soprattutto con la Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, ma il cui tema trovava fondamento già in alcuni passi del Cratilo di Platone, e che di fatto interpella chiunque avverta la necessità di dire qualcosa dopo che quel qualcosa è avvenuto, o anche durante – si va dal commento di una partita, al verbale in un commissariato, fino al racconto di un viaggio a chi non c’era. E la poesia può dirsi tale proprio perché capace di colmare questo gap; se le manca uno dei due elementi, ha tendenza a creare l’altro. Come? Facendo poesia. Il poeta si colloca al centro di questa tensione disgiunta, e fa da ponte per la corrente: se le cose mute lo assillano, darà loro una parola e le farà migrare nella parola. Se invece le parole non trovano più il proprio corpo nelle cose, allora sarà lui a dare loro una materia. La poesia è anche questo ricongiungere, opera di sutura e di riunificazione.
E in questo libro sentiamo il corpo del testo come dilaniato da quell’antinomia segno-cosa; allo stesso modo percepiamo la coscienza dell’autore, e con lui quella del lettore, trarre comunque beneficio dalle constatazioni nate da una scrittura accorta e vigile circa i limiti stessi del linguaggio, e proprio per questo a riparo da fuorvianti falsificazioni del reale, che altro non sono che incaute identificazioni all’illusione di realtà provocata dall’allucinazione delle parole, se queste ultime si chiudono nella propria virtualità rappresentativa e concettuale, perdendo respiro e suono, mondo, mutando quindi in una sorta di chimera proprio chi legge o scrive quelle parole.
Avvertiamo invece vivo nella forma del verso di Grippa, capace d’includere e fare significare gli spazi vuoti, lo sgomento dinanzi alla povertà della parola a tu per tu con le cose, ma allo stesso tempo anche l’anelito teso a un dire che abbia in potere lo svelamento del reale, per una conoscenza superiore:
E tu che intanto scrivi niente
conosci più di questo sasso; avverti
la scrittura, insufficiente, farsi altro;
guardi la parola sasso, senti la sua voce
pronunciarla, fare della sola consonante
spaccature, un’impresa di vento e acqua
che accade. Sineddoche, silenzio, entrature (6).
La pagina bianca si carica quindi di nuove possibilità, di avvenire. Ed è «come se mentre opera la mano possa proseguire oltre, oltre corpo e foglio, oltre il tavolo; al di là delle pareti, di ramo in ramo, virando verso il cielo raro di un’estate (7)»; luogo, quest’ultimo, concreto e sognato insieme, in cui sembra trovare felice realizzazione una poesia dell’unione – unico spazio d’ancoraggio, forse, anche per le immagini di una memoria, che è sempre memoria di un presente, adesso.
Vi sono momenti eccezionali in cui le revisioni divengono vere e proprie visioni e un segno accade dentro e fuori dalla pagina al contempo, come ponte possibile tra linguaggio e mondo, per una rinvenuta coscienza agente, hic et nunc, in potere di creare, di fare, pur avvertendo la vicinanza, potenzialmente pericolosa, di forme di pensiero che rischiano di alienare il soggetto dal movimento di una raggiunta realtà:
La visione riprende
da qui. Lo sguardo ritorna nel bianco. Osservi la nebbia che avanza, che sale dal fondo del colle. Alla finestra il paesaggio ha lasciato spazio a questo muro: pagina aperta dove il torrente, dove le pause del torrente. Acqua, voce e pensiero. Una frana. Calligrafia terra e verde. E ti sembra che tutto sia opaco, più chiaro, quando riprendi a guardare all’interno i quadri e lo specchio, i libri, la stanza. Lo sai. Ti riguarda. Il contrario del sole, penserai poi, che invece distolto lo sguardo dopo un’occhiata fa buio (8).
Momenti unici in cui la voce e il suo respiro si fanno sentire in quanto tali, fuori da pratiche discorsive, in corrispondenza dei segni che ora divengono testimoni nel canto e in un mondo ritrovato, in un presente assoluto.
Ecco allora un tuffo notturno, dalla piattaforma del discorso o da quello della mera scrittura – e il discorso non è poesia, anzi, è proprio ciò che si oppone alla poesia, ne è il contraltare – nel canto, dove la parola incontra i segni del mondo: «Concedi la tua voce a questi segni che ripartono. Da te. Dal buio del tuo corpo inevitabile, da un canto (9)».
Matthias Ferrino
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NOTE
1- Tra l’occhio e la forma / c’è un abisso / in cui può sprofondare lo sguardo, José Ángel Valente, Poemas a Lázaro (1960), in Obras completas I: Poesía y prosa, a cura di Andrés Sánchez Robayna, Galaxia Gutenberg-Círculo de lectores, 2006, p. 113, trad. del redattore.
2- Alessandro Grippa, Revisioni, pref. di Cristiano Poletti, Delta 3 edizioni, Grottaminarda, 2021, p. 46.
3- Alessandro Grippa, op. cit., p. 29.
4- Alessandro Grippa, op. cit., p. 78.
5- Jean-Paul Sartre, Baudelaire (1960), pref. di Michel Leiris, Gallimard, Parigi, 1975, p. 24, trad. del redattore.
6- Alessandro Grippa, op. cit., p. 16.
7- Alessandro Grippa, op. cit., p. 83.
8- Alessandro Grippa, op. cit., p. 89.
9- Alessandro Grippa, op. cit., p. 15.
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BIBLIOGRAFIA
GRIPPA A., Revisioni, pref. di Cristiano Poletti, Grottaminarda, Delta 3 edizioni, 2021.
PLATONE, Cratilo, trad. di Emidio Martini, Milano, Bur, 2018.
SARTRE J.-P., Baudelaire (1947), pref. di Michel Leiris, Paris, Gallimard, 1975.
VALENTE J. Á., Obras completas, vol. I, Poesía y prosa, a cura di Andrés Sánchez Robayna, Galaxia Gutenberg-Círculo de lectores, 2006.
VON HOFMANNSTHAL H., Lettera di Lord Chandos (1902), trad. di Nicoletta Giacon, Milano, Bur, 1985.