“Sono le cose semplici il nutrimento che salva dalla guerra”
La poesia del dolore e della speranza di Izet Sarajlic
«Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,
fra te e me ci sarà sempre l’ombra delle disgrazie passate,
il Cielo dei caduti ci sarà,
e le mie poesie più amorose scritte per te ti faranno ricordare la polvere
da sparo,
la polvere da sparo, le trincee, il fronte affumicato»,
Così scrive il poeta bosniaco Izet Sarajlic ne “La linea Maginot”, racconto in versi delle incurabili ferite che la guerra lascia, poiché da essa, non si guarisce mai davvero.
La Bosnia di oggi è una terra a macchie di leopardo, i quartieri croati si affiancano ai cimiteri islamici, brulicanti di lapidi storte che, a loro volta, costeggiano le eleganti chiese ortodosse dei serbi.
Gli anni Novanta sono ormai lontani, eppure, la distruzione e le sue conseguenze, fatte di divisioni etniche, fori dei proiettili sulle facciate, cani randagi che rovistano nell’immondizia, fanatici religiosi e capi politici che inneggiano alle radici e all’identità, continuano a far sentire la propria eco.
Sarajevo, città cara al poeta, luogo dei suoi affetti e carcere durante il conflitto nei Balcani, si dà allo sguardo come un mosaico ibrido. È questa mistura, l’accecante bellezza di una terra nata dall’incontro di culture diverse, una terra per essenza contaminata e frontiera ultima tra un Occidente di derivazione austro-ungarica e il mondo islamico.
La Bosnia – con le sue contraddizioni e la grande umanità di un popolo che, da sempre, ha dovuto fronteggiare la sofferenza – è la principale protagonista della poesia di Sarajlic, autore romantico e realista al contempo, che con i suoi versi, netti e d’una concretezza disarmate, riesce ad emozionare. È del resto questa, la forza di coloro che fanno del proprio vissuto poesia: non hanno da cantare altro che le esperienze radicali che li hanno attraversati.
Fra te e me ci sarà sempre la linea Maginot, scrive perciò l’autore, per gridare al mondo ipocrita che le cicatrici della guerra, dell’omicidio e della strage non si rimarginano mai, tanto che hanno inciso nel profondo il modo di scrivere del poeta che, prima ancora che un grande letterato, è stato un grande uomo, un resistente. Uno di coloro che, durante il tragico assedio di Sarajevo degli anni ’90, organizzava, per la popolazione sfiancata, serate di poesia clandestine, che avrebbero potuto costargli la vita.
Questo umanitarismo, è forse l’esempio che meglio rende l’essenza della poesia di Sarajlic. Una poesia semplice nella forma e profondissima nei contenuti, in quanto sceglie di sbarazzarsi di tutti gli orpelli astratti e delle elucubrazioni, cerebrali e intimistiche, che caratterizzano, di contro, i poeti borghesi, annoiati dalla vita e che mai hanno dovuto sperimentare sulla loro pelle la sofferenza vera, la perdita, il dolore dell’esilio e della persecuzione.
Per rendere meno straziante il presente, Sarajlic e il suo gruppo di amici, rimasti come lui a Sarajevo, cercavano di nutrire la popolazione con il pane della speranza dei versi. I n quanto poeti, infatti, anche se destinati a soccombere, si ostinavano a lottare con le loro armi, fatte di parole, contro al mostro della pulizia etnica. Un mostro che ha fatto strage d’interi villaggi, di donne, bambini e civili, in una guerra cruenta, di tutti contro tutti. E mentre le granate esplodevano e le mine antiuomo mutilavano gli innocenti, mentre le armi all’uranio impoverito facevano ammalare quei giovani militari chiamati a immolarsi per la patria, Sarajlic rischiava la propria vita, accompagnando gli amici poeti, trinciati dai cecchini, al cimitero, dove di notte si scavavano le fosse.
Intellettuale e umanista, autore di liriche che sono un inno alla pace nella misura in cui denunciano l’assurdità della guerra, Sarajlic canta la fragilità umana e le cose semplici nelle quali si annida la bellezza.
Sono gli eventi apparentemente scontati -che si fanno cose rarissime laddove la violenza diventa la normalità-, come amare, uscire con gli amici sedendosi al tavolo di un bar, i protagonisti dei versi dell’autore, nelle cui liriche si coglie la tensione dolorosa dell’impossibilità di pianificare il futuro, a cui sono condannati tutti coloro che hanno sperimentato un conflitto.
Persino quando la guerra si conclude, il senso di precarietà e l’incertezza del domani non lasciano la possibilità all’aria nuova di entrare. Così, nel testo “Ultimo tango a Sarajevo” (1994), scritto durante il dilagare della pulizia etnica, l’autore condensa l’intera sua poetica, mettendo in scena, con un’ironia tipicamente balcanica, il ballo con la sua amata. Un ballo che forse sarà l’ultimo, poiché la guerra giunge a rompere quell’idillio di normalità dato dalla leggerezza del Tango. I due amanti danzano quello che forse sarà il loro ultimo ballo… Anche la loro magnifica vita, fatta di sogni, speranze e desideri, è ormai trascorsa:
«La Sarajevo degli amanti non si arrende.
Sul tavolo l’invito per il matinè di danza allo Sloga.
Naturalmente ci andiamo!
I miei pantaloni sono un po’ logori,
e la tua gonna non è proprio da Via Veneto.
Ma noi non siamo a Roma,
noi siamo in guerra.
…
Mia cara, è passata anche la nostra magnifica vita.
Piangi, piangi pure, non siamo in Via Veneto,
e forse questo è il nostro ultimo ballo.»
Lucrezia Lombardo
© Fotografia di Danilo de Marco