98.

Pi, ma Zero

Dalle pianure d’Eurasia è giunta
fino a noi una lettera millenaria,
da secoli le labbra degli uomini cavalca.

Siamo nati in un Paesaggio di pelle

plasmato dalle ossa dei secoli,

da antenati di cui ignoreremo da sempre

e ignorammo per sempre il nome.

Ci siamo fatti Pensiero dentro

l’arcipelago del cranio, solcato

da un gheriglio di noce e filamenti

che è curva, talento: terribile tarlo.

Fondammo la storia quando la Parola

decidemmo di farla scritta, affidando
non più alla memoria orale, limitante

le preghiere e i poemi, l’ansia del tramandare.

Per una sacra missione, facemmo la Poesia

quando capimmo che dire non serve solo
a descrivere o indicare o far di conto, ma

a significare, evocando il resto che sfugge.

Per costruire un mondo migliore
ci illudemmo perfino con la Paideia:
sognavamo la bellezza unita alla bontà,
il cittadino che unisce alla lancia in mano
l’ardore e la difesa delle leggi comuni.

Cosa ne sapevamo, che tutte queste cose

un giorno le avremmo nominate con la pi?

E con quella lettera – ci pensi?!? –
inizia pure quella strana parola che,
a forza di chiamarla, è scappata lontana
o forse non c’è mai stata.

Alcuni dei nostri l’hanno avvistata,
cometa in un cielo finalmente
placido e tranquillo: rapida, ripidissima meteora,
nata per rimanere eterno desiderio.

Da tempo ormai la invocano,
a dritta e a sinistra tutto uno strillo per riaverla:
sperando che scenda, ridiventi manna,
l’hanno messa perfino s’una bandiera.
A leggerla si legge benissimo:
a farla, giudica tu.

Quando di notte attorno ti guardi

Quando di notte attorno ti guardi
non pensare alla luna,
al sereno del mondo:
non alla guerra che affolla le strade,
alla violenta semantica dei giorni.

Ragiona piuttosto le foglie,
gli scrosci d’acqua sul petto
lontano candore della donna
che è stata e che sarai.

La notte laverà la mente,
gli incubi di tutta una vita:
dirà ad alba vicina
che lotta è davvero continua.

Il dubbio che casomai
ora stringe il tuo cuore
è che luna sia solo il resto
d’un sogno fatto in poche ore.

La risposta è già nel quesito:
al mattino una somma costante
di ricordi, echi, pensieri
dice che quello di ieri
è il tesoro che ti porterai.

Rosa

Solo all’alba ho potuto vederti
dopo un giorno di viaggio e di buio:
dente appuntito di canino
nido di latte, crepacci di ragno.

Dov’è finito il tuo rosa
o quando mai c’è stato quel colore
dolomitico che altrove
dicono sia la casa di Laurino?

Rispondi, razza di comandante
in quella bianca corona di sergenti
che ti guidano all’assalto delle ombre
all’affollata pianura che ti gratta i piedi:

in un marzo appena imbiancato
ho immaginato il tuo maggio
verde di sentieri alti, pascoli solitari,
ho intravisto le case legno del larice,
le lose ai tetti, i camini accesi
col profumo antico di latteria e resina.

Me lo confermi, no
che i tuoi montanari fieri
fecero delle tue trappole di ghiaccio
il loro paradiso segreto?

Ora restano questi villaggi sgretolati
un fiume esile, in secca, sfasciato
e nessuno esce più ai cortili.

Stranieri vengono alle tue pendici,
ti sciano sulla barba, fra i seni:
li lasci fare, come un elefante
fa con le mosche: loro passeggeri,
tu perenne comandante.