88.

Opulente e imprescindibili strade stellate

Laddove giacciono inerti sopiti sogni,

logori da notti insonni ai chiar di Luna,

ho deposto le mie esili intime vesti umide,

e in quel luogo, di ombre argentee e polveri di ciprie,

flebile canto, di labbra dischiuse appena, si eleva sottile,

e discende come velar di nuvole, all’astro d’argento.

Io musa di notti arcane,

io strega di balli proibiti,

io impervia divina creatura,

o sirena fuor d’acque perigliose,

son qui, a badar che i sogni non siano rubati,

trovati e presi da viandanti senza cuori ne mete certe.

Discioglierò, in pianti inaudibili, sommessi singhiozzi,

ove le mie tenue mani si aprano come fiori alle albe tiepide,

e il mio sguardo si poserà sui tuoi dolori, senza pesantezza d’animo.

Ed ecco che arriva lieve il flauto,

di un satiro senza tempo né età,

melodia che come nebbia tutto avvolge,

dove i nostri ricordi vagano sperduti,

come ombre vaganti in cerca di una loro luce.

Senza ali né artigli

Sotto a questo cielo così cupo,

che a volte piange lacrime fredde,

e altre volte di lacrime da piangere non ne ha più,

ci sono io,

che non ho piume cerate per ripararmi dal pianto degli angeli,

e non ho ali per poter volare,

per innalzarmi sopra i temporali.

Allora mi rifugio nell’angolo più nascosto del mondo,

e parlo sottovoce alla mia ombra,

ma forse neanche lei mi ascolta più.

Mi aspetto coraggiose parole, forti e decise,

ma non mi risponde,

tace come di quel silenzio che inonda il mondo,

così com’anche noi tacciamo ai dottori,

incapaci di parole come mute prede impaurite,

ferite aperte dei nostri invisibili dolori,

relegate in quei lunghi silenzi senza botte,

perché ogni Sole fa capo ad una passata notte.

Abbiamo eternamente l’infamia legata stretta,

aver ingannato Adamo con una mela, che sia maledetta,

e la condanna di dover dare al mondo, con sofferenza,

il gemito della vita alla nascita di ogni nuova esistenza.

Fantasmi opachi come nebbie d’autunno

Se anche mi guarderai negli occhi,

troverai dentro di me una stanza vuota,

ed io non ti vedrò come forse tu vorresti.

Non ti chiamerò per nome,

perché lo avrò smarrito,

e ogni mio dire sarà solo voce e angoscia di fantasmi quotidiani.

Non ci sarò davanti a te,

perché sarò sperduto in chissà quali foreste,

e sotto i miei capelli canuti non ci saranno più le voci di un tempo,

età quando i miei muscoli erano forti per alzarti al cielo.

Silenzioso e incosciente incederò nel mio mondo inesistente,

passi strascicati in nebbie opache e fredde come stagni melmosi,

ma non piangere se io, nel voler dire cose illogiche, incespicherò,

insicuro e stanco, come quando andavamo nel fitto del bosco,

e inciampavamo nei cespugli di erbe selvatiche e rami secchi.

Ma allora ti tenevo per mano, perché ero io il più forte e coraggioso.

Un giorno che si perde, e un altro uguale,

e scorrono anni, fatti di giorni simili che sembrano un gioco di specchi,

mentre lentamente le fiaccole sui miei passi già fatti si indeboliscono,

e vacillano nelle notti più dure.

Per questo ti chiedo, senza più voce e luce negli occhi, di farmi coraggio,

come un tempo io facevo a te.

I vostri volti saranno per me tante maschere sul proscenio,

atti di tragedie o commedie recitate senza pubblico,

teatro di una vita dove, alfine, ogni attore è una falsa verità.