Giovanni Peli
La vita immaginata
Lamantica Edizioni, 2020
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Questo libro è stato scritto perché sfilano le bare e i versi, perché cieco nella piccola peste/ non credevo in niente; è figlio, insomma, di questo tempo interrotto che ha trasmutato la vita vissuta in vita immaginata – sotto la mascherina immaginare/ labbra tumide da morirci e mordere. Giovanni Peli alterna prosa e poesia, alla ricerca della forma da dare al discorso, a questa vita immaginata eppure fino ad oggi inimmaginabile. Nella prima sezione, ‘Movimenti’, prevalgono versi apocalitici, rassegnati a un diverso futuro segnato – Torneranno i lupi e gli orsi in città/ falchi poiane marmotte camosci/ i cervi tra le auto parcheggiate/…/e quando i superstiti riapriranno la porta/ per uscire a vedere il mondo cambiato/ intoneranno il canto del merlo/ senza cercare alcuna spiegazione. Le poesie hanno rifiutato la punteggiatura mentre i brani in prosa, pur accogliendola, non si chiudono col punto e restano in bilico nel vuoto, in un sospeso (ma sempre imminente) sprofondamento, come se quanto appena descritto o ipotizzato fosse destinato a scomparire. Nella sezione ‘La voce in fondo’ il poeta si prefigge imprese quasi eroiche, come quella di salvare le parole dalla letteratura (e dall’uomo nero) prendendo spunto dalle capacità infantili di selezione e interpretazione dei fonemi, cercando di fermarle sul ciglio della gola. Cerca il silenzio il poeta ma ci dice anche – con la sensibilità del musicista – che la verita è nel suono e prosegue la sua riflessione continua, oscillante tra l’eco dei sensi, la voce, il suono, i silenzi. C’è un interlocutore silenzioso in questa sezione, un ‘tu’ amoroso che a volte si distingue con chiarezza nel padre, a volte nel partner e altre sembra confondersi con l’io, diventare un ‘tu’ retorico; si sente, a tratti, la lezione di Beckett – E se fosse verità quella nota mai emessa?…Non parlo da mesi e tutto è finito nel buio.
‘Segnali’ è il titolo della sezione successiva, dove entrano in scena il sistema nervoso centrale, le sirene delle ambulanze, i sensi di colpa, i rendiconti dal tempo della segregazione ma anche le escursioni nel tempo successivo alla pandemia, oggetto di predizione e luogo d’ogni ‘perdizione’ – In primo luogo ci fu un’impennata delle vendite di apparecchiature che soddisfacessero i fabbisogni sessuali. Si smaniava per accoppiarsi con le macchine…Quando tutto finirà non esisteranno pagine bianche, non conosceremo più l’ansia di riempirle, non riusciremo più a decodificare i nostri pensieri. Si abbandoneranno i social e la scrittura, l’informazione sarà solo video, i contatti umani saranno diradati e turnati. Ne ‘La casa col giardino’ ritorna a prevalere la forma del verso e il racconto di un presente pandemico ormai appiattito nel suo futuro, ripetitivo e disumano…risolviamocela questa vita/ non cresce più l’erba/ non piove da mesi/ nulla siamo/ e sia pace/ nulla possiamo/ e calvario sia; …le glorie umane non bastano/ rimpiangiamo gli abituali rancori/ la forza vitale dell’autodistruzione.
Fa un po’ paura il pronostico di ‘Finale’, le due pagine che chiudono questo libro – … Ancora una volta vincerà il male: l’avidità. Salirà strisciando su per le gambe a spirale, gli uomini non avranno più vergogna. La sola nota positiva sarà il regno dell’oscurità: nessuna scienza chiarirà il mondo, il nero dominerà sui grevi giorni e nel faticoso respiro diuturno saremo per sempre consolati. Ci aiuta a sperare la lettura di Massimo Morasso, che intravede in quel “per sempre consolati” una implicita luce di speranza, la possibilità che il male non prevalga. E sottolinea anche, nella sua postfazione, la qualità della parola di Giovanni Peli, che brilla particolarmente nella metapoetica sezione centrale, ‘La voce in fondo’, che non teme di affrontare la questione millenaria del senso della poesia.
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Antonio Fiori
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Ti butto dentro tutta la speranza
tu così stretta dolce a me
si manifesta la vita immaginata
nei minimi particolari fino alla fine
sfumature fino al mare che si raggruma
frammenti invisibili della palla di vetro
ci interessa il risultato della frantumazione
un po’ di sabbia dentro gli occhi
*
La voglia negli occhi glauchi e ombrosi
sotto la mascherina immaginare
labbra tumide da morirci e mordere
si cammina scottati dal sole improvvido
ancora più aride le nostre idee
solo alla rapina servono gli altri
le donne con certe gambe da antilope
la mordace sventatezza dei corpi
che ancora scambiamo per seduzione
quando scontornati dal cielo blu
si avvicinano sempre di più e toccano
la flebile eccitazione dell’io
non riconosciamo più la veloce
fine che cammina e ha scabri tessuti
di epitelio che rivestono il teschio
*
Caldo di fine inverno
ma domani torna la neve
scorro il dito sulle tue vene
seduto nel paradiso all’aperto
quest’angolo verde e grigio
di casa che stavamo cambiando
è troppo piccola per sperare
per stare fuori tutto il giorno
senza cuffia né altri desideri
c’è invece un profumino di neve
ma come di una neve lontana
entriamo a ripararci subito
giù dai gradini tra gli angoli di sole
è una casa in piedi finché può
e non fa più tenerezza perché
se ci ammaliamo ci impestiamo
noi della casetta tutti e tre
ma non ammaliamoci prima del tempo
leggiamo molto facciamo l’amore
quando si sveglia Cicio giochiamo a pallone
c’è il giardinetto per fare l’evoluzione
della margherita virulenta
oh che pena la salita
sa di salvezza annichilita
risolviamocela questa vita
non cresce più l’erba
non piove da mesi
nulla siamo
e sia pace
nulla possiamo
e calvario sia
*
Giovanni Peli è nato a Brescia nel 1978. La sua produzione spazia dalla poesia alla narrativa, dal cantautorato alla librettistica, alla letteratura per l’infanzia. Ha fondato Lamantica nel 2015 con la traduttrice Federica Cremaschi.