Donatella Nardin “ Rosa del battito “ Fara Editore Rimini 2020
Lettura di Fabrizio Bregoli
Poesia e mistero si interrogano nei versi della Nardin, perché è “il non detto” il centro nevralgico della poesia, soltanto questo sa offrire “da solo il suo senso profondo”. Siamo partiti - in modo non convenzionale - dalla fine, a rovescio quindi, per mettere da subito in evidenza la dichiarazione di poetica che è alla base di questo nuovo lavoro di Donatella : l’assunto della inconoscibilità dell’esistenza, in cui siamo tuttavia immersi con le nostre vite, sempre alla ricerca di un “polline di suono” (C. Rebora) che si presti a offrire uno spiraglio di comprensione, prospettiva a cui solo l’amore autentico sembra assolvere.
È poesia della perdita quella che Donatella Nardin ci offre, nella forma di un dialogo prima di tutto con sé stessa perché possa diventare tramite verso l’altro, tentare un ricongiungimento con quanto abbiamo perduto, con chi abbiamo lasciato, restituirci alla dimensione della “comunione dei vivi e dei morti” (G. Raboni) nella rispettiva compresenza.
Mario Benedetti
(Udine, 9 novembre 1955 – 27 marzo 2020)

Andrea Abreu López (Santa Cruz de Tenerife, 1995). Vive a Madrid, dove frequenta un Master in Giornalismo Culturale e Nuove Tendenze nella URJC. E’ giornalista e scrittrice. Come giornalista, scrive per Poscultura ed è coordinatrice della sezione Croci (X): femminismi e identità. Ha scritto e scrive per vari media. Ha pubblicato il fanzine Primavera que sangra (2017) e il libro Mujer sin párpados (Versátiles Editorial, 2017).
DAVIDE TOFFOLI (Roma, 1973) si è laureato nel 1998 all’Università “La Sapienza” di Roma con Biancamaria Frabotta con una tesi dal titolo: “Il caso Turoldo: liturgia di un uomo”. Dal 2000 insegna Lettere negli istituti di Istruzione Secondaria di I e II grado, attualmente presso l’I.I.S. “Einstein-Bachelet” di Roma, dove è ideatore e responsabile del progetto “La scuola a casa di Riky” e del laboratorio “Percorsi di lettura e scrittura attiva” sulla poesia italiana della seconda metà del Novecento. Collabora con la rivista semestrale “Quaderni Ibero Americani”, con la rivista mensile “’O Magazine” e con il “Roma Art Meeting” (curando video-interviste e la rubrica di approfondimento letterario “Parole, Parole, Parole”). In poesia ha pubblicato: “Invisibili come sassi” (2014), “Ogni foto che resta. Camminatori e camminamenti” (2015) e “L’infinito ronzio” (Controluna, Roma 2018). Il suo racconto (“Bomba, Sgrullare’! Panza a tera!”) è inserito nel volume “Interviste impossibili agli eroi della Repubblica Romana”, curato dalla scuola di scrittura creativa Omero. E’ tra gli autori dei polifonici “Il libro degli allievi. Per Biancamaria Frabotta” (Bulzoni, Roma 2016) e “Passaggio a mezzogiorno” (Collana Isola, Ed.Ulbar 2018) e sostenitore, sempre più convinto, di ogni forma di lettura, di interazione artistica e di “creattività” resistente.

Lettura a cura di Davide Tartaglia
Nella giornata mondiale della poesia Il libro tibetano dei morti è un libro necessario.
Commento a cura di Clery Celeste
Oggi sarebbe l’equinozio di primavera e la giornata mondiale della poesia. Fatico a festeggiare entrambe le cose. In questo momento così faticoso resta da chiedersi quale parola può resistere. La poesia è in grado di resistere? Sono in grado i poeti di schierarsi contro la tragedia e il dolore, per farci approdare a una comune bellezza oppure sono tutti impegnati, anche in questi giorni, a scrivere e mettere la firma, a sventolare un proprio marchio?
Mi sono chiesta quali parole potessero essere davvero necessarie ora. Sono andata a riaprire Il libro tibetano dei morti (a cura di Giuseppe Tucci, pubblica SE). Un libro antichissimo, difficile da leggere senza alcuna preparazione. Ecco perché c’è una lunga introduzione che mette il lettore in una visione della morte completamente ribaltata da quella occidentale. Siamo abituati a pensare alla morte come a un salto, un passaggio nel buio da cui non si può tornare. Bisogna salvarsi in vita, in vita chiedere perdono. Dopo c’è poco da fare, ci aspetta il buio, o se siamo stati dei santi, la luce. Il libro tibetano dei morti non è un libro di poesie, è un libro di istruzioni, un trattato sulla liberazione. Andrebbe letto almeno una volta nella vita affinché quelle parole, al momento del bisogno, possano tornarci alla memoria e salvarci. Queste parole sono necessarie, sono quelle che devono resistere perché chi sta morendo in queste ore nelle stanze di terapia intensiva è solo, semplicemente chi muore in questi giorni non ha tempo per niente, muore solo. La coscienza del morto viene lasciata senza parole, senza un tocco. Ci sta venendo tolto uno dei primi simboli di civiltà che è la sepoltura, la giusta cura dei morti, l’ultimo invisibile dialogo tra morti e vivi.