Adele Desideri – “la figlia della memoria” (lettura di Giuliano Ladolfi)
Ho ottenuto quello che volevo lettura di Giuliano Ladolfi
Con crescente interesse ho letto il romanzo di Adele Desideri La figlia della memoria (Bergamo, Moretti & Vitali, 2016), perché conserva un sapore della verità, della condivisione, della vita. La scrittrice, infatti, rievoca in gran parte un lasso di tempo che corrisponde ai miei ricordi. Il testo, pertanto, mi ha immerso in un mondo ormai scomparso, lontano “tremila anni” dall’esperienza dei nostri giovani e proprio per questo prezioso perché non permette che parte della storia comune vada perduta.
La prima parte segue la suggestione della Coscienza di Zeno di Italo Svevo: «È trascorso tanto, tanto tempo. Ho quasi venticinque anni sono seduta su un lettino. Alle mie spalle c’è la terapeuta, tragicamente freudiana, che mi conduce, silente, verso il suicidio». Affiorano in questo modo le vicende dell’infanzia, la masseria di Valvole, un vero e proprio “piccolo mondo antico” con le gozzaniane “buone cose di pessimo gusto”, dove però tutto aveva un senso e una logica intrinseca. L’adolescenza è caratterizzata dall’iniziazione al sesso, dalle angosce inconsce, dagli studi e da un progetto di vita fortemente conflittuale tra le ascendenze nobiliari della madre e quelle plebee del padre, personaggi attentamente delineati. Il conflitto tra desiderio di libertà e senso del dovere provoca una precoce nevrosi inducendo l’io narrante a sottoporsi e a interrompere il trattamento terapeutico. A completare la formazione non mancano i romanzi con le eroine capaci di suggestionare una fantasia giovanile.
«Sono figlia del boom economico post bellico. La Seconda Guerra Mondiale non mi ha neppure sfiorata, se non attraverso le reminiscenze di mia madre» che rievocano il salvataggio di un gruppo di Ebrei e vicende belliche dei partigiani. Poi la trama ritorna a puntare l’attenzione sull’io narrante e sulla «bambina che combina guai», chiusa in scuole rette da suore. Improvvisamente sopraggiunge la maturazione: «Quel giorno ho capito che io, rispetto ai miei familiari, ero di un’altra stoffa […]. Ho compreso in quel grumoso mattino di gennaio, che i miei ideali sarebbero stati diversi e ho deciso in cuor mio che, una volta diventata grande, mi sarei impegnata […] per testimoniare il valore della solidarietà e per difendere i diritti della persona umana da qualsiasi luogo del mondo essa provenisse». Erano gli Anni Sessanta-Settanta, i tempi del terrorismo, quando l’intimidazione mortificava con il pericolo di morte o di gambizzazione la libertà di opinione. La protagonista rievoca uno dei momenti più tragici della storia repubblicana italiana: in classe fu annunciato che «Aldo Moro era stato rapito dalle Brigate Rosse»; allora la sua presa di posizione divenne chiara: «Ho avuto la sensazione che qualcosa, dal quel momento, sarebbe cambiato. Il gioco della guerriglia, praticato dagli estremisti dall’una e dall’altra parte, si era fatto veramente troppo duro. Anzi, tragico. […] Era ora di smetterla. Basta proteste posticce. Basta pretese rivoluzionarie. […] Si doveva ricominciare a ricostruire, dopo i tafferugli, dopo le barricate. Dopo i tanti, inutili morti che dal Sessantotto avevano generato continui lutti». Ma l’agognato equilibrio interiore tarda a sopraggiungere: non riescono a risolvere i problemi né il sesso né la droga. L’angoscia provoca allucinazioni che spingono al suicidio, sventato all’ultimo momento.
Ma proprio nel momento della disperazione incomincia a delinearsi una luce in fondo al tunnel: «Sono capitata davanti a una chiesa. […] Tre vecchiette, sedute sulle prima panche, recitavano il rosario. […] Ho provato a parlare con Gesù. Assenza totale di comunicazione», ma il successivo incontro con don Bernardo apre un orizzonte di speranza.
Lentamente e con grande sofferenza inizia un cammino di espiazione e di redenzione, mediante il quale la protagonista ritrova se stessa e il senso della vita, compiendo una scelta radicale: «Ancora qualche mese e prenderò i voti. Quarantacinque anni. Suora di clausura dell’Ordine Carmelitano. Ho ottenuto quello che volevo. Ritirarmi dal mondo. Ho trovato quello che desideravo. L’Amore. L’Amore che, solo, resiste nell’eternità». Con queste parole di speranza si conclude il racconto che ripercorre modernamente la vicenda di Agostino «Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te» (“Ci hai creati a tua immagine e il nostro cuore non trova pace finché non riposi in te”).
Tutto il romanzo delinea il cammino verso una meta sconosciuta che solo a posteriori diventa rintracciabile. E qui entriamo nel mistero di ogni persona, nel suo itinerario tra sogni e delusioni, tra errori e grazia, tra luce e tenebre, dove ogni lettore può rintracciare i contorni della propria esistenza. Il bene e il male, la gioia e la sofferenza sono intrecciati in un amalgama inscindibile, dove un disegno superiore si realizza per mezzo della libera volontà individuale.
Il romanzo va considerato come una vera e propria storia di un’anima da porre accanto alle Confessioni di Agostino per alcuni versi e ai Promessi Sposi per altri, a condizione che la lettura superi il superficiale livello di narrativo per essere calata negli eterni interrogativi esistenziali che dilaniano la ricerca di ogni individuo.
Ogni tappa in se stessa si presenta priva di senso, le singole esperienze non aggiungono altro che caos alla vicenda, i personaggi trovano nei propri limiti la ragione di un rapporto quasi sempre discutibile, la protagonista stessa non teme di rivelare l’abisso di colpa in cui continua a cadere. Eppure proprio per mezzo e attraverso questi elementi negativi alla fine della narrazione diviene chiara la realizzazione di un piano superiore finalizzato a condurre la protagonista alla pienezza dell’esistenza.
Peccato e redenzione, abiezione e grandezza, ragione e mistero: ecco la realtà dell’uomo. Del resto, nel periodo storico, in cui le precedenti certezze non appagano lo spirito umano, non resta che la condizione esistenziale di ricerca. Fede, dopo Feuerbach, dopo Nietzsche, dopo Freud, dopo Heidegger, è dubbio, è salto nel buio, è lotta, è “prigione / del senso che non dispera”, come afferma Montale. Si tratta, se riflettiamo, di una fede vicina al nichilismo della Croce, vicina alla concezione di Meister Eckardt, che ci presenta un Dio liberato dalle incrostazioni, debolezze e proiezioni umane.
Come nella vicenda del Graal, la fede fede oggi deve attraversare l’angoscia, l’abiezione, la disperazione, come è avvenuto a Cristo nel Getsemani, ad Abramo sul Moira o a Tommaso dopo la Risurrezione, a Leopardi che domanda alla luna perché sia nato per soffrire, a Manzoni alla morte dell’amata Enrichetta Blondel, all’uomo del Novecento che continua a interrogarsi: «Dov’era Dio, mentre si consumava lo sterminio di Auschwitz?».
E qui la ragione vacilla e vacilla perché non esistono spiegazioni alla constatazione di un Dio che lascia nell’ovile le novantanove pecorelle, che aspetta il figlio prodigo, che scende in terra per condividere in tutto, eccetto che nel peccato, la sofferenza umana. E questo non ha senso… Nella religione cristiana non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che cerca l’uomo e stabilisce per ognuno un momento di incontro in un modo assolutamente inaspettato.
E Adele Desideri in questo romanzo sa penetrare in questa misteriosa realtà contraddittoria e vi entra con una sorta di trepidazione, quasi temesse di violare una zona sacra, intoccabile, di ogni persona per riportare alla luce i frammenti di una vita e comporli in mirabile e straordinario mosaico.
Giuliano Ladolfi (1949) ha fondato e dirige l’omonima casa editrice e la rivista di poesia, critica e letteratura «Atelier». Tra le pubblicazioni poetiche ricordiamo Attestato (2005) e tra i saggi Per un’interpretazione del Decadentismo (2000) e Per un nuovo Umanesimo letterario (2009).
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