Ho vagato nel martirio della notte
le ore che i cani ne disfanno il corpo
resta un volto solo a sfigurare
vie di vergini e puttane.
Ricordo un mormorio strano di stelle, nella mia
qualunque solitudine ricordo
le mani favolose dei pezzenti
certe loro linee disumane,
come mappe, offerte per la fame dei bambini.
E che ogni sera un vecchio urlava
urlava urlava come il vento
avesse fame, e lui
chiamato ad esaudirlo urlava
di farsi pasto a ciò che si ama.
Per anni ho stravolto la bocca di queste parole,
glossavano mattine immobili
quando nei vuoti di una stanza contemplavo
il sole e la meccanica del cielo –
che più s’azzurra e più si rompe e cade
che a frammenti fa un’immagine via via,
ciò che chiami paradiso ed è soltanto
un altro modo di comporre il mondo.
Quando volevo diventare il mio dolore,
lasciare la colonia dei miei occhi
per portarne uguale la barbarie
in quelli di chi avevo amato.
Mi illudevo che contassero i miei passi
che un ultimo potesse cedermi
la fine ed il principio, quasi il mondo
celasse in sé un’ipotesi di morte,
che il lavorio di atomi e forze fosse teso
a qualche prodigiosa conclusione
qualche riunione cui mancando nei miei incubi
forzavo l’universo a perdurare.
Infine ho benedetto quel mio errore,
il regno attorto che spalancano
nel transito le ombre.
Se Regno è poi davvero tutto quanto
una parola ripara l’assenza.