44.

Ho vagato nel martirio della notte

le ore che i cani ne disfanno il corpo

resta un volto solo a sfigurare

vie di vergini e puttane.

Ricordo un mormorio strano di stelle, nella mia

qualunque solitudine ricordo

le mani favolose dei pezzenti

certe loro linee disumane,

come mappe, offerte per la fame dei bambini.

E che ogni sera un vecchio urlava

urlava urlava come il vento

avesse fame, e lui

chiamato ad esaudirlo urlava

di farsi pasto a ciò che si ama.

Per anni ho stravolto la bocca di queste parole,

glossavano mattine immobili

quando nei vuoti di una stanza contemplavo

il sole e la meccanica del cielo –

che più s’azzurra e più si rompe e cade

che a frammenti fa un’immagine via via,

ciò che chiami paradiso ed è soltanto

un altro modo di comporre il mondo.

Quando volevo diventare il mio dolore,

lasciare la colonia dei miei occhi

per portarne uguale la barbarie

in quelli di chi avevo amato.

Mi illudevo che contassero i miei passi

che un ultimo potesse cedermi

la fine ed il principio, quasi il mondo

celasse in sé un’ipotesi di morte,

che il lavorio di atomi e forze fosse teso

a qualche prodigiosa conclusione

qualche riunione cui mancando nei miei incubi

forzavo l’universo a perdurare.

Infine ho benedetto quel mio errore,

il regno attorto che spalancano

nel transito le ombre.

Se Regno è poi davvero tutto quanto

una parola ripara l’assenza.